Il marchio Hag nacque in Germania nel 1906 ed è presente in Italia dalla fine degli anni Venti. La particolare rilevanza della posizione di leadership detenuta dalla marca deriva, oltre che dalla invidiabile quota di mercato, soprattutto dal fatto che Hag si è posto come l’inventore della stessa categoria in cui opera conferendogli notorietà oltre che autorevolezza: il nome Hag è diventato, infatti, talmente generico da stare ad indicare la categoria intera (per la verità creando, qualche volta, alcuni problemi di banalizzazione e confusione). Il prodotto è costituito da un caffè “decaffeinato”, ossia privato della caffeina. Questo genere di prodotto ha da sempre suscitato perplessità e pregiudizi da parte dei potenziali utilizzatori, in quanto si ritiene, spesse volte anche oggi, che, per essere ottenuto, debba subire trattamenti chimici complessi e pericolosi per la salute. Inoltre, anche qualora il caffè decaffeinato superi questo primo critico vaglio interpretativo, emergono subito nuovi luoghi comuni e preconcetti connessi al suo gusto a ostacolarne la diffusione.
Il mercato del caffè in Italia è particolarmente grande. La quasi totalità degli italiani (il 95% della popolazione) consuma regolarmente caffè, ma solo una minima parte di essi (il 14% dei consumatori) fa uso di decaffeinato e, in proporzione ai consumatori di caffè normale, tale uso risulta vistosamente inferiore dal momento che solo il 3% del caffè consumato è decaffeinato.
La differente natura del prodotto è alla base di tali divergenze. Da una parte è naturale che il caffè “normale” costituisca la parte preponderante del consumo totale essendo, esso, il prodotto originale, quello «vero», al cui confronto parlare di “caffè decaffeinato” appare un’antitesi in partenza (“che rilevanza può mai avere un caffè che non è caffè?” potremmo chiederci).
Ciononostante, il mercato del caffè decaffeinato è cresciuto significativamente fino al 1989, quando, a causa di una campagna denigratoria – poi smentita – che lo indicava come contenente solventi chimici nocivi alla salute, il consumo ha subito un crollo improvviso e deciso, tanto da dimezzarsi nel giro di tre anni continuando a scendere fino al 1996. È solamente a partire da questo anno che il prodotto ha cominciato la sua risalita (crescita media del 6% annuo), in contro tendenza con quanto faceva il caffè tradizionale (diminuzione media dell’1%), anche se è palese che, essendo stata, la crisi, dettata essenzialmente da un fattore improvviso e contingente, per quanto infausto, il consumo non avrebbe potuto rimanere per troppo tempo lontano dalle proprie potenzialità medie dimostrate fino a quel momento. Solamente fra qualche anno, cioè, quando la tendenza di fondo avrà ripreso il suo corso, potremo guardare a dati comparativi con il caffè “normale” con la consapevolezza di una maggiore attendibilità.
Il profilo dell’utilizzatore tipo di Hag è rintracciabile in quello di una donna di età superiore ai 45 anni, abitante al Nord e al centro (mentre al Sud, patria per eccellenza del caffè classico, questo genere di prodotto trova serie difficoltà ad affermarsi), di condizione socioeconomica medio-alta, e, soprattutto, che consuma anche caffè tradizionale (caratteristica che accomuna ben il 93% dei consumatori della marca). Quest’ultimo aspetto sembra essere un rivelatore piuttosto importante di come la scelta del decaffeinato non si ponga come una valida alternativa praticabile al caffè “normale”, avvalorando, al contrario, l’ipotesi che esso sia visto soprattutto come un ripiego quando, per una qualche ragione, non è possibile consumare il caffè tradizionale.
Due sono i principali atteggiamenti mentali che possono essere indotti dal caffè decaffeinato. Il primo, preponderante, è quello per cui questo prodotto è visto come punitivo, un compromesso obbligato in certe situazioni tra il bere o il non bere caffè. È evidente che, secondo il particolare atteggiamento che la persona dimostra di fronte a una costrizione e ad una scelta fra due alternative la quale vada a forzarne la volontà, potremo riscontrare posizioni di accettazione rassegnata o di contrapposizione “orgogliosa” nei confronti dell’opzione più sgradita. Il secondo possibile atteggiamento, certamente meno diffuso, è positivo in quanto induce il consumatore a considerare il caffè senza caffeina come un prodotto scelto (senza che la scelta sia il frutto di una costrizione) in quanto adatto a nuovi e più moderni stili alimentari.