Questa teoria, che individua verso chi in concreto le imprese devono essere responsabili, è il punto di partenza per la riflessione sui meccanismi attraverso cui l’impresa ottiene e perde la sua legittimazione sociale.

Anche se altri studiosi di management (tra cui ad esempio Ansoff e Stewart) si erano già occupati di approfondire tale concetto la prima teoria organica è tuttavia attribuibile a Freeman, secondo cui “gli stakeholder primari, ovvero gli stakeholder in senso stretto, sono tutti quegli individui e gruppi ben identificabili da cui l'impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori e agenzie governative chiave. In senso più ampio, tuttavia, stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dall'attività dell'organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In questo più ampio significato, gruppi di interesse pubblico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, associazioni imprenditoriali, concorrenti, sindacati e la stampa, sono tutti da considerare stakeholder”.

Gruppi e individui, dunque non rappresentano solamente dei “vincoli” a un operare di impresa come si era pensato per tanto tempo, ma, qui sta la novità, partecipano al processo di formazione degli obiettivi della stessa.
In una formulazione più recente, Clarkson (1995) estende il concetto di stakeholder anche ai portatori di interessi potenziali come, ad esempio, le generazioni future: “gli stakeholder sono persone o gruppi che hanno pretese, titoli di proprietà, diritti, o interessi, relativi a un'impresa e alle sue attività, passate, presenti e future”.

Si osservi come da una visione degli stakeholder come soggetti “passivi”, che subiscono le conseguenze dell’attività aziendale, ci si sposti progressivamente verso una concezione degli stakeholder come soggetti “attivi”, che si relazionano con l’azienda e partecipano insieme a essa al processo di creazione di valore trasformandosi da semplici spettatori in attori di quel processo. Insomma, l'idea a fondamento della stakeholder theory è che tutti i soggetti coinvolti investono, in termini di risorse, competenze professionali, conoscenze, infrastrutture, nell'impresa, analogamente a quanto fanno gli shareholder, e hanno pertanto la pretesa e il diritto di ottenere un'equa remunerazione del loro investimento da parte dell'impresa stessa.



L’azienda diventa consapevole che il modo in cui la sua identità viene percepita, sia all’interno che all’esterno, è indispensabile per ottenere legittimazione sociale e questo dipende dalla sua capacità di stabilire rapporti duraturi con gli stakeholder. Pertanto, laddove si voglia attuare una qualsiasi forma di rendicontazione sociale la prima e imprescindibile fase sarà la mappatura degli stakeholder considerati rilevanti, l'analisi delle loro relazioni e la ponderazione dei loro interessi legittimi in gioco, al fine di risolvere i dilemmi decisionali generati dalla natura conflittuale degli interessi dei diversi gruppi. Al riguardo, si ricordi la struttura matriciale proposta da Hinna, ottenuta incrociando l’interesse di ciascun gruppo di stakeholder con l’influenza che tale gruppo è in grado di esercitare sull’attività aziendale.

Il modello è di indubbia efficacia, tuttavia in taluni casi esso comporta il rischio di “ingiustizie” nei confronti di interlocutori altamente coinvolti, non in possesso degli strumenti per far sentire la propria voce, quali potrebbero essere la manodopera cinese di una multinazionale europea o americana. In questo caso è chiaro come i dipendenti siano certamente stakeholder interessati all’attività dell’impresa così come lo sono i clienti del mercato americano. Questi ultimi, però, a differenza dei primi, oltre che essere interessati, potevano con il loro comportamento influenzare la gestione dell’impresa. Quindi era necessario concentrare su di loro l’attenzione identificandone i valori ai quali, nel bene o nel male, fossero sensibili.