Il progetto di nazionalizzazione delle ferrovie italiane venne presentato il 21 febbraio del 1905 alla Camera dei Deputati dall'allora ministro dei Lavori Pubblici Francesco Tedesco che era stato Direttore Generale del Regio Ispettorato delle Ferrovie. Nella norma in esame era previsto l'assoluto divieto di sciopero, fortemente contrastato dal sindacato dei ferrovieri. Si aprì quindi un delicato e lungo confronto parlamentare terminato con l’approvazione della legge del 22 Aprile 1905 n.137. La direzione generale fu affidata a Riccardo Bianchi, già capo della “Sicula”, in cui il Primo Ministro Giolitti riponeva incondizionata fiducia.
Con la legge del 7 Luglio 1907 n. 429, "portante l'ordinamento dell'esercizio di Stato delle ferrovie non concesse di imprese private", le Ferrovie dello Stato uscirono dalla fase transitoria iniziata il primo luglio del 1905, stabilendo un ordinamento che non subirà cambiamenti sino alla riforma avvenuta nel periodo fascista. Questa legge fissava l'ordinamento dell'azienda e completava l'impianto generale della legge del 1905, senza modificarla sostanzialmente. L'azienda era sottoposta alla "alta direzione e responsabilità del Ministro dei Lavori Pubblici". La responsabilità politica dell'azienda e la sua gestione erano nelle mani del Direttore Generale dei Lavori Pubblici; quindi, il Ministro aveva diretto accesso alla gestione dell'azienda che era articolata come un dipartimento del Ministero dei Lavori Pubblici, con un'autonomia fortemente limitata che venne mantenuta in questo stato di cose anche dai successivi provvedimenti legislativi che mirarono a tenerla sempre sotto il controllo governativo.
Le condizioni della finanza pubblica, dopo lunghi periodi di difficoltà connessi al risanamento realizzato dai Governi della Destra Storica, presentavano maggiore solidità e resero possibile, con relativa facilità, la nazionalizzazione del sistema ferroviario con l'esborso da parte dello Stato di circa Lit 500 milioni dell'epoca, (più degli attuali 1,5 Miliardi di Euro). Anche le pressioni sindacali convergevano verso un mutamento di struttura proprietaria e del modello gestionale che assicurasse maggiori garanzie ai dipendenti con uno di tipo pubblicistico. La nazionalizzazione portò ad un forte impulso del parco rotabile assegnato all'industria produttrice italiana, con l’effetto di sostenere un processo di accumulazione capitalistica in un settore strategico per lo sviluppo del sistema industriale italiano. Le locomotive ordinate all'industria aumentarono in misura considerevole, passando da 800 a 2000, favorendo in questo modo anche l’industria pesante, importantissima ai primi del ‘900.
Si può affermare che la nazionalizzazione dell'esercizio ferroviario sia stato il frutto di interessi convergenti da parte di tutti coloro che gravitavano intorno a tale sistema: i privati, che esercitavano attività mediante concessione, i lavoratori e i sindacati dell'azienda, i fornitori di materiale rotabile e il sistema politico che intendeva attivare uno strumento di politica industriale per lo sviluppo economico del Paese. Il sistema degli “stake holders” costituì un forte impulso nella direzione del mutamento dell'assetto proprietario.