Giro d’affari nel 2006 superiore al miliardo e 300 milioni di euro; perdita complessiva pari a 160 milioni; indebitamento totale che si aggira sul miliardo e 600 milioni. Sono i numeri aggregati delle società calcistiche italiane di serie A. Club che, da un lato faticano a chiudere i loro conti in nero escogitando anno dopo anno prassi contabili per “abbellire” i bilanci al fine di evitare l’esposizione di perdite che comporterebbero obblighi di ricapitalizzazione, dall’altro conquistano sul campo prestigiosi riconoscimenti a livello europeo e mondiale. Nel corso dell’ultimo decennio i ricavi delle società della massima serie sono aumentati, con l’avvento delle televisioni a pagamento, in misura che non ha precedenti; i calciatori, invece, sono diventati professionisti strapagati e vere e proprie star. Il calcio, quindi, è divenuto un’industria con un volume d’affari che nel 2005 ha raggiunto, comprendendo anche l’indotto, i 6 miliardi di euro. Tuttavia, nonostante la fortissima crescita del settore, i club hanno presentato, tranne qualche rara eccezione, conti in rosso in misura da spingere addirittura il governo ad adottare provvedimenti d’emergenza (il c.d. decreto salva-calcio del 2002).
Analizzando i proventi delle squadre di Serie A emerge come negli ultimi anni la crescita dei ricavi non sia avvenuta in maniera omogenea. Dal ‘98 al 2005, mediamente, il 60% del fatturato totale è stato prodotto soltanto da quattro club (Juventus, Milan, Inter e Roma), i quali sono stati anche i vincitori delle competizioni sportive. Osservando la composizione dei ricavi affiora, inoltre, una peculiarità del contesto italiano rispetto alle altre nazioni europee. Nel nostro Paese la fonte principale di ricavo sono i proventi derivanti dalla cessione dei diritti televisivi, che rappresentano circa il 60% del totale delle entrate. Negli altri contesti europei, invece, la principale fonte di ricavo sono i proventi commerciali – ossia i ricavi da sponsorizzazioni e da merchandising – e i diritti televisivi rappresentano soltanto il 30% delle entrate, la metà esatta rispetto alla realtà italiana. Sul piano dei ricavi, perciò, i nostri club non hanno ancora diversificato il business rimanendo troppo legati alla negoziazione dei diritti tv.
Sul fronte dei costi la principale voce di spesa delle società di serie A è costituita dalle retribuzioni dei calciatori, che si attestano intorno al 65% del valore della produzione. A differenza dei ricavi, osservando l’incidenza delle retribuzioni dei giocatori sul totale dei proventi non emerge una spaccatura netta tra grandi e piccole squadre. Ci sono, infatti, club di medie dimensioni oppure piccole società che registrano valori percentuali addirittura superiori a quelli dei grandi club. Negli ultimi anni si è verificata un’inversione di tendenza nell’andamento degli stipendi dei calciatori. Se, infatti, tale valore è risultato crescente fino al 2002, dal 2003 in poi si assiste anno dopo anno ad una leggera riduzione, che si accompagna sia al decremento del numero dei calciatori componenti l’organico delle squadre, sia alla riduzione del compenso medio corrisposto ai giocatori stessi. Essendo, poi, i costi operativi superiori ai ricavi operativi, i bilanci delle società si chiudono in perdita e i pochi risultati positivi sono dovuti all’iscrizione di elevati valori a titolo di plusvalenze sulla cessione dei calciatori. Attualmente, quindi, le società di calcio italiane non possono essere considerate imprese dal punto di vista economico-aziendale. La necessità di raggiungere un giusto equilibrio tra logiche sportive ed economiche impone ai club di concentrare la propria attenzione non solo sulle vicende agonistiche, ma anche su quelle concernenti gli aspetti più propriamente manageriali della gestione. In particolare, al fine di assumere i connotati di vere imprese le società di serie A dovrebbero diversificare la loro attività.
Innanzitutto, i club dovrebbero focalizzarsi sullo sfruttamento a fini commerciali del marchio societario. Nel nostro Paese vi è arretratezza rispetto ad altri contesti europei, quello inglese soprattutto, nella commercializzazione di articoli col nome o col marchio della società (quelle che sono definite attività di merchandising). La causa principale di questo aspetto risiede nelle elevate dimensioni raggiunte in Italia dal mercato dei prodotti contraffatti – da 3,5 a 7 miliardi di euro il volume d’affari del mercato nero nel 2005 secondo stime di Confesercenti – che rendono difficile l’adozione di un’efficace azione repressiva da parte delle autorità competenti.
Un ulteriore aspetto da affrontare è la gestione diretta dello stadio. In Italia la mancata proprietà dello stadio impedisce ai club di disporre di un asset fondamentale per lo svolgimento della propria attività. L’esperienza straniera dimostra, infatti, che la proprietà degli impianti sportivi consente ai club da un lato di disporre di una solida componente patrimoniale, dall’altro di creare valore tramite la gestione delle numerose attività commerciali che possono essere realizzate all’interno dell’impianto stesso. Negli ultimi anni, soprattutto in Inghilterra e in Germania, gli stadi sono stati costruiti ex-novo, o ristrutturati, in compartecipazione finanziaria fra club e grandi sponsor privati, i quali poi hanno dato il loro nome al nuovo impianto. Ciò ha consentito alle società calcistiche di ridurre il proprio investimento nella costruzione dello stadio e di disporre di lauti proventi annuali derivanti dalla cessione del diritto sul nome dell’impianto stesso.
I club italiani dovrebbero, perciò, innestare un nuovo circuito finanziario che, muovendo dallo sfruttamento del marchio a fini commerciali e dalla proprietà dello stadio, sia in grado di generare un incremento futuro delle entrate societarie.
Ad oggi, però, questo circolo virtuoso sembra lontano dall’essere implementato, tanto che diverse società di serie A per incrementare i ricavi hanno sì puntato sul proprio marchio, ma non sfruttandolo dal punto di vista del merchandising bensì cedendolo ad una società appartenente al loro medesimo gruppo aziendale. Tale operazione ha avuto, in sostanza, l’unico effetto di consentire ai club di iscrivere in bilancio, tra i proventi straordinari, plusvalenze di importi elevati – 181 milioni di euro il Milan, 158 l’Inter, 127 la Roma, 95 la Lazio per citare le cessioni più redditizie – che hanno permesso di chiudere il Conto economico con una perdita di modeste dimensioni o addirittura evidenziando un utile d’esercizio. Dal punto di vista finanziario, invece, le casse sociali non hanno, nei fatti, subito modificazioni in quanto la controparte della cessione è stata una società dello stesso gruppo della squadra di calcio. Un’altra carta da giocare nella partita della riqualificazione gestionale è quella legata ai vivai. I club calcistici, infatti, puntando sui giovani hanno la possibilità di raggiungere contemporaneamente sia il successo sportivo sia l’equilibrio di bilancio. Investendo oggi sui campioni del futuro le società possono da un lato potenziare le capacità tecnico-tattiche dei giovani sperando in un loro fruttuoso inserimento nella prima squadra, dall’altro evitare di spendere eccessive risorse finanziarie per acquistare calciatori già maturi formati in altri vivai. La diversificazione dell’attività aziendale, in conclusione, rappresenta l’ unica via per raggiungere il giusto equilibrio tra logiche sportive e logiche manageriali e per svincolare il club dalla figura del presidente-mecenate disposto illimitatamente a mantenere in vita la società nonostante che i risultati gestionali consiglino altri rimedi.
I pessimi risultati economici e finanziari riportati dai club italiani stridono fortemente se paragonati con gli importanti traguardi raggiunti dall’italico pallone sul terreno di gioco. Mentre le società faticano a chiudere i loro bilanci in nero ed escogitano politiche di window dressing per rinviare nel futuro onerose ricapitalizzazioni, sul campo di gioco il tricolore bianco-rosso-verde garrisce ben alto nei cieli europei e mondiali.
La scorsa estate l’Italia si è aggiudicata la Coppa del mondo in Germania, a fine anno il capitano azzurro Fabio Cannavaro è stato insignito del doppio riconoscimento di Pallone d’Oro e Miglior Giocatore del 2006, due mesi fa il Milan si è laureato Campione d’Europa aggiudicandosi la Champions League e Francesco Totti ha conquistato la Scarpa d’oro.
Tutti riconoscimenti che non fanno altro che accrescere la popolarità del calcio nel nostro Paese, il quale neanche di fronte agli scandali di Calciopoli, agli incidenti di Catania, alla chiusura degli stadi e alla sconfitta della candidatura azzurra nella corsa per organizzare gli Europei 2012 ha mostrato segni di cedimento verso quello che oltre che un divertimento popolare è diventato una e vera propria fede religiosa nazionale. Nel bene e nel male. Due facce della stessa medaglia, che alla fin fine rappresentano la perfetta metafora della vita. Successi sportivi da un lato, rovesci etici, sociali, finanziari e politici dall’altro. Forse la bellezza del calcio è proprio questa: basta una vittoria sul campo e tutto quanto di brutto c’è stato prima cade nel dimenticatoio.