Il modello sloanista rappresenta una “eccezione” al modello fordista. Sloan, ingegnere della General Motors, intuì che alcuni pezzi potevano essere utilizzati in comune tra più modelli; basta questo per comprendere il cambiamento di rotta rispetto alla concezione fordista di produzione. In più il management della GM fiutò che i gusti della popolazione più abbiente erano ben diversi ed esigenti rispetto a quelli della classe media e che, quindi, aspiravano a distinguersi da quest’ultima… con una macchina personalizzata, ad esempio.

GM, attorno agli anni ’20, fu la prima casa automobilistica a percepire che qualcosa stava cambiando tra le classi il cui tenore di vita si stava progressivamente innalzando. L’idea di produzione di massa a modello unico adottata da Ford e la produzione di una pluralità di modelli specifici erano considerate, all’epoca, all’antitesi l’una con l’altra. General Motors, casa automobilistica americana, ideò la soluzione a questo compromesso utilizzando pezzi comuni per le parti invisibili dei suoi modelli, ed elementi diversi per le parti visibili. Per produrre tali veicoli concepì un nuovo modello produttivo caratterizzato dalla polivalenza dei suoi impianti e dei suoi dipendenti.

Il nome del modello produttivo deriva dall’ingegnere che lo idealizzò, Alfred P. Sloan. Sloan nella prima metà degli anni ’20 affidò alla Chevrolet, altra casa automobilista della holding General Motors, il lancio di un’autovettura a buon mercato, il modello K, che ebbe un successo immediato e rese obsoleta la Ford T in poco tempo. Tale autovettura metteva la guida interna, cioè la guida all’interno di un abitacolo protettivo e isolante dall’ambiente esterno, alla portata di tutti grazie a un prezzo competitivo. La Ford T invece aveva la guida esterna, cioè il pilota non era protetto da un abitacolo coperto e isolante. Ma l’aspetto rivoluzionario fu che il motore concepito inizialmente per la Chevrolet K era un altro, abortito successivamente nella fase progettuale della K perché ancora non messo a punto. Fu così che Sloan adattò un motore già esistente al telaio della K. L’innovazione consistette proprio nell’offrire questo modello che condivideva parti di un altro.

La politica di prodotto del modello Sloanista si caratterizza nell’offrire, sotto diverse marche, gamme complete di modelli che condividono piattaforme comuni e si differenziano per lo stile. A questo si aggiungono un numero di migliorie periodiche che mirano a seguire l’evoluzione dei gusti. Per ridurre il rischio della diversità dei prodotti la direzione dell’impresa è strutturata a due livelli: una direzione centralizzata definisce gli orientamenti del gruppo, e le divisioni operative che mettono in opera in modo appropriato le direttive e le strategie.

Per quanto riguarda la fabbricazione, i rischi della diversità consistono in un aumento di perdite di tempo sulle linee, nel moltiplicarsi degli errori e dei difetti e in una meccanizzazione più costosa. Comunque il modello sloanista limita questi rischi esternalizzando la produzione e mettendo in concorrenza le aziende fornitrici. Viene fatto ricorso, inoltre, alle catene di montaggio con le quali è possibile miscelare le diverse versioni di uno stesso modello o, anche, modelli diversi che condividono la stessa base.

Il modello sloanista fu presentato, per un certo periodo di tempo, come la one best way valido per tutte le imprese, qualsiasi fosse la loro attività. In campo automobilistico, Renault e Fiat lo adottarono negli anni ’50, Ford e Peugeot attorno agli anni ’60, la Volkswagen negli anni ’70. Ma il modello sloanista entrò in crisi già a partire dai primi anni ’70. Ci fu una sua rinascita, invece, in Volkswagen negli anni ’90, basti pensare che la holding della casa automobilistica possiede anche Seat e Skoda, i cui modelli adottano pianali ed altre parti, in comune con le macchine di pari categoria della Volkswagen.