All’economista inglese Hines viene, di solito, attribuito il merito di avere aperto sin dal 1964 le ostilità contro l'ortodossia dominante rappresentata dalla curva di Phillips, sviluppando un discorso nel quale, per la prima volta, viene introdotto, nella spiegazione dell’inflazione salariale, un indice apparentemente oggettivo della spinta autonoma sindacale.
In un celebre articolo pubblicato sulla “Review of Economic Studies” del 1964 e in alcuni lavori successivi, l’economista Hines ha esposto uno studio, confortato da un robusto patrimonio statistico, in cui giunge alla conclusione che il tasso di incremento della quota di forza lavoro sindacalizzata rappresenti una variabile esplicativa, che incide in modo significativo nell’equazione dei salari.

In pratica, l’autore propone l’ipotesi che l’aumento della percentuale di adesione dei lavoratori iscritti al sindacato rifletta la capacità di pressione delle stesse organizzazioni sindacali, nel momento in cui intraprendono contemporaneamente campagne di reclutamento e vertenze per ulteriori rivendicazioni salariali.

Il modello di Hines, pur sollevando particolare curiosità nella letteratura economica, ha suscitato notevoli perplessità, essendo stato a lungo e in maniera vigorosa criticato da numerosi esperti.
Anzitutto, è stata sottolineata la difficoltà di Hines ad elaborare un adeguato supporto teorico a sostegno del suo argomento, ossia la direzione di causalità della relazione corrente tra il tasso di incremento nella percentuale delle forze di lavoro sindacalizzate e il saggio di variazione dei salari monetari.
In effetti, Hines si è sempre limitato nel corso della sua indagine ad un discorso che ha il sapore di una razionalizzazione ad hoc, quando afferma:

“quando un sindacato avanza una determinata richiesta, immediatamente prima e durante il periodo delle trattative, esso cercherà di accrescere il suo potere contrattuale facendo aumentare la proporzione della forza lavoro sulla quale esso ha un controllo diretto”.

In questo senso, la maggior parte dei critici sembrano nutrire una profonda incredulità circa la linea di causalità ipotizzata nel modello di Hines, in quanto è ambigua. Infatti, pare a molti studiosi che sia semplicemente poco probabile supporre l’idea che i sindacati inizino le campagne di reclutamento per incrementare il numero dei propri membri solo ed esclusivamente in preparazione di una trattativa salariale. Del resto, questo scetticismo è ulteriormente rinforzato dalle variazioni minime registrate nel numero di iscritti ai sindacati nel Regno Unito soprattutto dal dopoguerra in poi.

Oltre alle carenze nell’apparato teorico, anche la validità statistica dello schema di Hines è stata messa in discussione.
A questo proposito, significativi risultano gli attacchi portati dagli economisti Purdy e Zis, che in una ricerca congiunta del 1974, tramite l’uso di dati più omogenei (annuali, invece che trimestrali), hanno stimato nuovamente l’equazione di Hines, ridefinendo la variabile “mutamenti del grado di sindacalizzazione” e i parametri prezzi e salari. Nel complesso, i risultati dell’indagine sviluppata dai due autori possono essere tradotti nei seguenti punti:
1. Un aumento della percentuale di lavoratori iscritti al sindacato è dimostrato essere una condizione sufficiente, ma non necessaria, per assicurare un incremento dei salari monetari.
2. In seguito a variazioni nella struttura occupazionale prodotte dal processo di crescita economica (che determina flussi di manodopera fra settori con diverse intensità di iscritti al sindacato), la variabile “mutamenti del grado di sindacalizzazione” non è affatto una variabile statisticamente significativa dell’attivismo sindacale.
3. La forza contrattuale del sindacato dipende assai più da altre cause, e prima fra tutte, dal livello della disoccupazione.
Anche su di un piano più strettamente teorico, Purdy e Zis screditano la consistenza dell’ipotesi di Hines, dimostrando come il suo lavoro sia solo il frutto di una razionalizzazione a posteriori del comportamento dei salari e come con troppa superficialità si esamini, da una parte, la combattività sindacale in stretta analogia con il comportamento del venditore monopolistico, e dall’altra si identifichi l’influenza dei sindacati con il loro grado di militanza.
Gli economisti Purdy e Zis si soffermano sull’ambiguità delle variabili di Hines, quando scrivono:

“non c’è una ragione a priori perché il tasso di variazione della percentuale di lavoratori iscritti al sindacato debba inevitabilmente catturare tutte le manifestazioni della militanza sindacale. In via di principio la variabile approssimativa più appropriata per la militanza, per ragioni istituzionali, potrebbe essere diversa in diversi periodi e in diverse società”.

Sempre sul terreno delle considerazioni critiche a carattere empirico che rivelano la fragilità del modello interpretativo di Hines, può essere aggiunto anche un altro fatto degno di nota.

Se la percentuale di persone iscritte al sindacato e il suo tasso di variazione costituiscono, come sostiene l’economista Hines, delle buone variabili approssimative per spiegare la spinta esogena dei sindacati e, inoltre, ammesso che questa eserciti un impatto significativo sul livello dei salari, come corollario del ragionamento di Hines dovremmo attenderci un allargamento dei differenziali retributivifra i settori industriali, che abbiano un diverso andamento nel numero delle iscrizioni al sindacato.

Questa ipotesi, in realtà, contrasta con l’evidenza che proprio l’economia britannica fornisce nel periodo di tempo studiato dallo stesso Hines.
A questo proposito, gli economisti Dicks-Mireaux e Shepherd dai risultati conseguiti da una loro indagine del 1962 sui guadagni dei lavoratori operanti in oltre cento industrie durante tutto il corso degli anni cinquanta, concludono che:

“lungo questo periodo di nove anni la dispersione delle variazioni percentuali fra le industrie è stata abbastanza limitata”.

Tutto questo accadeva mentre, come osserva lo stesso Dicks-Mireaux, la densità della forza lavoro aderente al sindacato, variava considerevolmente da settore a settore. Infatti, l’autore scrive:

“dal 1931 al 1961 la percentuale di lavoratori iscritti al sindacato aumenta del 62 per cento […]. Durante lo stesso periodo tuttavia l’iscrizione al sindacato è più che raddoppiata nel settore del trasporto […] nel settore metalmeccanico […] e cade di un terzo nel settore minerario […]. Tutto questo suggerisce che la struttura salariale avrebbe dovuto cambiare molto di più se la percentuale di iscritti al sindacato fosse una determinante del tasso salariale […]”.

Possiamo notare che, sebbene il risultato ottenuto da Hines appaia troppo poco convincente per essere accolto, la sua ipotesi non è stata facilmente liquidata dai suoi avversari.
Questa sensazione si riscontra evidentemente nel pensiero di Purdy e Zis, quando ammettono:

“comunque, ciò che si può vedere dai dati inglesi sin dal 1893 è che il tasso di variazione della percentuale di lavoratori iscritti al sindacato, un indice della militanza, è strettamente correlato con il tasso di variazione dei salari monetari. Questi dati sono dunque consistenti con le affermazioni di Hines […] che i rappresentanti sindacali considerano un successo nella campagna di tesseramento come una condizione necessaria per il successo al tavolo delle trattative”.