Il progetto Mediobanca partì da Raffaele Mattioli, che con l’intento di rilanciare la propria Banca (Comit, che prima della crisi era la quarta banca europea e che invece attualmente era la venticinquesima [Colajanni, 2000]) presentò nel 1944 tale progetto all’IRI ancora proprietario delle banche; ed inizialmente il progetto di Mattioli aveva lo scopo di proteggere la Comit e gli altri Istituti di credito ordinario da nuove possibili crisi industriali e non ripetere, quindi, gli errori del passato. La necessità di creare tale figura così atipica stava proprio nell’accrescimento dei livelli della domanda di capitale da parte dell’industria. Proprio Mattioli disse al Consiglio di Amministrazione di Comit le seguenti parole per riassumere il progetto Mediobanca, o precisando, con il primo nome Unione Bancaria per il Credito Finanziario: “Come si vede, non si tratta, come si usa dire, di una idea brillante; ma del soddisfacimento di un’esigenza che la situazione del mercato finanziario e creditizio italiano porta in sé come risultante di un innegabile ed imprescindibile stato di fatto…”. Il nuovo istituto avrebbe potuto appoggiarsi sulla rete di filiali delle banche fondatrici per la raccolta di capitali attraverso lo strumento dei depositi vincolati; inoltre esso doveva provvedere alla raccolta di fondi a medio termine e creare un rapporto diretto tra il mercato del risparmio e le imprese finanziate. Un altro aspetto che si può cogliere dal progetto Mattioli e che forse ne rappresenta la parte più innovativa è il tentativo di separare l’operare dei banchieri privati dall’operare dello Stato. Da quest’ultima riflessione si coglie la necessità di creare un punto di riferimento tra il settore del risparmio e le imprese, che sia capace di muoversi indipendentemente, ma che soprattutto riesca a dare un impulso per la creazione di un mercato finanziario; in Italia il mercato finanziario non è mai stato utilizzato come strumento di valutazione dei rendimenti aziendali bensì come specchietto delle allodole per le aziende stesse. I grandi gruppi industriali inoltre hanno sempre scoraggiato i risparmiatori ad investire nel mercato mobiliare (sia azionario che obbligazionario), perché sono sempre stati esclusi dai profitti dell’azienda che rimaneva nelle mani degli assetti proprietari attraverso gli strumenti dell’autofinanziamento e della riduzione dei dividendi. Si nota, nella tabella sopra riportata l’evoluzione della struttura del passivo delle S.p.A. industriali dallo scoppio della seconda guerra mondiale al dopoguerra. Le obbligazioni non riescono a risalire neanche ai livelli antecedenti il conflitto, le riserve ed i fondi conguaglio si riducono, perché l’azienda utilizza l’autofinanziamento per finanziare gli investimenti, ma il dato preoccupante è che la situazione debitoria delle imprese peggiora rappresentando addirittura nel 1956 più della metà del passivo; inoltre scoraggiante è la qualità dell’indebitamento essendo rappresentato dalle solite forme dello scoperto in conto e dello sconto.
Mediobanca nasce il 10 aprile 1946 a seguito di Decreto Ministeriale del 2 Aprile 1946 di autorizzazione a svolgere attività bancaria, ai sensi dell’art. 1 del R. Decreto-Legge 12 marzo 1936, n. 375 da parte del ministro del Tesoro Corbino; gli azionisti erano COMIT e CREDIT con una rispettiva quota del 35% e Banco di Roma con una quota del 30% per un capitale totale di Lire un miliardo interamente sottoscritto dai soci.
La struttura di governance era composta dall’Assemblea degli azionisti, da un consiglio di amministrazione (inizialmente di cinque membri poi portato a sette nel 1947) un Comitato Esecutivo ed un Direttore Generale (che era ENRICO CUCCIA, il quale sarà investito anche della carica diAmministratore Delegato con la modifica dell’art. 26 dello Statuto dal 1949).
Sedevano in consiglio di amministrazione Mattioli e Rossi per la Banca Commerciale, Brughiera e Stringher per il Credito Italiano, Quintieri e Foscolo per il Banco di Roma; presidente del consiglio di amministrazione era l’imprenditore tessile Eugenio Rosasco. La sede venne fissata in Milano nell’attuale Piazzetta Cuccia al numero 1 e, fino alla modifica statutaria di cui si vedrà nei prossimi capitoli, Mediobanca concentrava la sua attività unicamente nel settore del credito a medio termine (art. 3 Statuto Mediobanca).
Nella fase di avvio la relazione con la Banca Commerciale e con il
Credito Italiano permisero di acquisire rapidamente un certo spessore operativo, facendovi affluire risorse e relazioni con le imprese. Le due ex banche miste milanesi portarono in eredità l’ampia rete di sportelli, rapporti privilegiati con le maggiori imprese industriali e solidi legami internazionali [Piluso, 2005].
L’innovativo progetto di Mattioli e Cuccia di costituire un istituto di credito mobiliare a carattere privatistici, in contrasto con la pressoché esclusiva presenza della mano pubblica nell’area del credito speciale, indusse la Banca d’Italia di Einaudi e Menichella a nutrire il timore che si volesse forzare e alterare l’ordinamento emerso negli anni Trenta. La costituzione di Mediobanca destò reazioni e suscitò critiche diffuse negli ambienti bancari. In rappresentanza dell’ABI, nel luglio del 1946, il presidente dell’IMI Siglienti scrisse a Einaudi e Corbino una lettera con la quale criticava la decisione della Banca d’Italia e del Tesoro di autorizzare Mediobanca. Scrivendo anche a nome delle banche popolari e delle casse di risparmio, Siglienti evidenziò l’effetto che Mediobanca avrebbe avuto sul circuito del mercato dei capitali, con l’allentamento del controllo del mercato monetario, con il rischio di intrecci tra l’istituto e le banche di interesse nazionale, con la probabilità che aumentassero gli scartellamenti (applicazioni di condizioni più favorevoli rispetto a quelle convenute con i concorrenti) e quindi si spingessero i tassi al rialzo.
In effetti, negli anni successivi la Banca d’Italia dovette osservare che i nuovi istituti di credito mobiliare erano stati costituiti dietro pressioni provenienti dalle componenti del sistema bancario, dando luogo a provvedimenti singoli e scollegati, in assenza di organico disegno di integrazione funzionale della struttura da parte dell’istituto centrale.
Nell’aprile 1946 Menichella (governatore della Banca d’Italia) accolse anche per ragioni di equità, il progetto di un istituto di credito a medio termine, la Centrobanca, presentato dagli istituti centrali di categoria delle banche popolari, delle casse di risparmio e delle banche private come esplicita reazione di Mediobanca. Da un lato, Menichella non poté disconoscere la validità degli argomenti usati per richiedere l’autorizzazione per Centrobanca (il nuovo istituto avrebbe peraltro permesso di finanziare a medio termine le imprese di minori dimensioni che incontravano difficoltà a ottenere prestiti dall’Imi). Dall’altro, tuttavia, nei richiami al Tesoro la Banca d’Italia non mancava di evidenziare la necessità di porre una serie di vincoli alla sfera operativa degli istituti di credito mobiliare, al fine di evitare commistioni ritenute pericolose, per la logica della legge bancaria, con le banche di credito ordinario.
Alla nascita dell’Istituto Mediobanca l’operatore pubblico più forte era l’I.M.I., che dopo la falsa partenza dei primi anni di vita assunse una posizione significativa grazie al Piano Marshall ed alla gestione dei fondi ERP (European Recovery Program): i prestiti a industrie italiane tramite l'IMI-ERP furono pari a $ 260.214.404. Il metodo utilizzato fu quello del prestito condizionato, dollari prestati contro l’impegno della controparte ad acquistare in America i prodotti necessari. Dato che l’esito del secondo conflitto mondiale lasciò gli Stati Uniti in una posizione di schiacciante superiorità economica, la maggiore necessità del dopoguerra per il governo U.S.A., era quella di mantenere alto lo straordinario livello di produzione raggiunto, e i conseguenti indici di reddito e occupazione. Per questo motivo agli americani risultava conveniente finanziare con fondi pubblici le importazioni di altri paesi che, acquistando negli Stati Uniti i prodotti necessari mantenevano alto il reddito nazionale americano, evitando così il rischio di una contrazione dell’economia statunitense.
Di questi particolari prestiti si avvantaggiarono 1217 industrie italiane.