In questi giorni molti quotidiani, sulla scia dell’approvazione della legge n. 15/2005, hanno riportato all’attenzione di tutti l’incapacità delle Amministrazioni Pubbliche di rendere trasparenti la propria organizzazione e il proprio modi di operare. Un dato di fatto che ormai non può più essere giustificato dalla complessità del disegno di riforma della PA (che ha avuto origine dalla legge 241/90, che nella trasparenza amministrativa individuava il suo principio ispiratore), ma che deve invece essere letto come incapacità e non volontà delle amministrazioni di impegnarsi seriamente ad intraprendere un cammino di innovazione sostanziale.
I numeri parlano chiaro: a quindici anni di distanza dalla regolamentazione normativa del diritto di accesso ai documenti amministrativi, che costituisce uno degli strumenti giuridici più rilevanti ai fini della trasparenza, ben poche amministrazioni hanno provveduto ad adottare il proprio regolamento attuativo. Particolarmente sconfortante la situazione degli Enti Locali: essi, che per la loro vicinanza alla comunità dovrebbero essere i primi ad adottare le riforme volte a migliorare i rapporti tra istituzioni e società, sono invece in una condizione di estrema arretratezza, dal momento che solo 1 Comune su 7 ha provveduto alla pubblicazione del regolamento nell’archivio della Commissione sull’accesso.
Ma una volta tolte le ragioni di complessità, di scarse dotazioni finanziarie, di perpetuazione di modelli organizzativi ottocenteschi, che cosa resta a generare la resistenza delle amministrazioni al cambiamento? La ragione sostanziale è una, ed è di tipo culturale: risiede nella scarsa preparazione delle risorse umane chiamate a dare attuazione alle riforme stesse.
Molto spesso, infatti, quando si parla di Pubblica Amministrazione si tende a dimenticare che gli Enti non sono entità oggettivate, ma al contrario sono sostanziati da persone che esercitano materialmente le funzioni che gli competono ed esprimono, con i loro atteggiamenti nei confronti dell’utenza, l’orientamento comunicativo complessivo dell’Ente stesso. E’ una considerazione di non poco conto: è noto che la legge 241/90 ha rappresentato il pilastro portante di un’architettura di riforme che, lungi dall’introdurre semplicemente nuovi istituti, nuove forme di organizzazione e nuove modalità operative, erano finalizzate, nell’intenzione del legislatore, a rifondare il rapporto tra cittadini e Pubblica Amministrazione; sulla base della considerazione che l’interazione tra la società e le istituzioni, letta come scambio continuo di informazioni, consente all’Amministrazione di rispondere più tempestivamente ai bisogni della società e di cambiare se stessa coerentemente al cambiamento della comunità, secondo un meccanismo di feed-back oggi sconosciuto all’apparato amministrativo italiano.
Ma c’è di più. In un sistema di riforme in cui il nodo è quello del rapporto cittadino-amministrazione pubblica, con il termine di risorse umane non si possono più intendere solo i dipendenti e i funzionari pubblici (che sono le risorse umane in senso proprio rispetto alla loro organizzazione di appartenenza), ma bisogna includere nella definizione anche i cittadini, che sono chiamati a conoscere i loro diritti, ad esercitarli e a pretenderne l’attuazione laddove l’amministrazione sia inadempiente (come nel caso già citato del diritto di accesso).
Qual è allora la soluzione? La soluzione sta nella creazione, anche all’interno degli Enti Pubblici, di una cultura aziendale fondata sul principio della comunicazione, al fine di realizzare la condivisione dei valori e degli obbiettivi (partecipazione, trasparenza, orientamento al cliente, customer satisfaction), coinvolgendo e motivando i dipendenti pubblici al cambiamento. Tale atteggiamento comunicativo, riportato all’esterno dai funzionari di front-office, ai quali è assegnato un importantissimo quanto sottovalutato ruolo simbolico, influenzerà positivamente non solo il giudizio degli utenti ma anche il modo in cui essi si relazioneranno successivamente con l’Ente.