Una caratteristica delle fasi di transizione, che sembrano non passare mai, è la trasformazione delle condizioni di disagio individuale in fenomeni di smarrimento collettivi. Sembra infatti che dalle difficoltà non si possa emergere se non con un atteggiamento opportunistico, che privilegia strettamente gli interessi individuali, mentre trova espressione massima l’uso strumentale di ogni situazione al fine di procurarsi condizioni di vantaggio. Le crisi hanno il vantaggio di far emergere i lati migliori o peggiori di gruppi o persone, senza vie di mezzo. In questi momenti così confusi cresce anche una domanda assillante di equità, di vedere che ci sono dei rifugi, vie di uscita, seppure piccole, in cui la responsabilità di quello che si fa e dei comportamenti possibili, pur avendo ancora una dimensione sociale , è comunque una conquista faticosa. La responsabilità esercitata socialmente è spesso un’abile operazione di rammendo delle evidenti smagliature di questo nostro tempo ambiguo, un tempo ,a mio avviso, in cui parliamo di “rottamazione al mondo del lavoro” dove la liquidazione dei dipendenti è politicamente interessante se considerata come liberazione di posti di lavoro ed economicamente produttiva se è vista come possibilità di riconversione e reinvestimento da parte dell’azienda nell’innovazione tecnologica, e dunque come incremento della sua competitività sul mercato. Sempre più diffuso è il ricorso da parte dei paesi sviluppati al lavoro a basso costo nelle zone di sottosviluppo e cosa più amara è l’impiego di bambini in lavori pesanti e pericolosi. Ci sono attualmente casi sconcertanti di aziende che hanno adottato politiche volte al coinvolgimento nelle decisioni strategiche dei propri dipendenti, salvo poi licenziarne una gran parte. Oppure aziende che hanno sviluppato centri di ricerca sul tema della responsabilità sociale dell’impresa, salvo poi essere coinvolte in episodi di falsificazioni di bilanci. Per non parlare dei casi di corruzione diffusa , che hanno interessato proprio il nostro Paese, o di aziende che hanno favorito una tutela delle dipendenti-madri lavoratrici in patria , salvo poi utilizzare il lavoro minorile nei pesi in via di sviluppo. Da Tutto questo è maturata una personale necessità di approfondire con grande trasporto e passione lo studio sulla “Responsabilità Sociale delle Imprese” o” Corporate Social Responsibility” che ha segnato la rinascita , di un nuovo modo di intendere l’impresa ormai opaca, buia , priva di vita . Il profitto è ancora oggi un riferimento vincolante per le imprese, ma qualcosa sta cambiando, sia pure lentamente. E questa diversa concezione di crescita viene chiamata “Responsabilità Sociale d’Impresa”. Quest’onda partita da oltreoceano, ha sommerso tutta l’Europa, seppure con modalità diverse a seconda dei promotori. La Commissione Europea si è preoccupata di pubblicare un Libro Verde. I governi di tutti i paesi promuovono iniziative sul tema. In realtà il fenomeno non è nuovo. In ambiti accademici statunitensi si è provato ad interpretare diverse fasi storiche che hanno visto incrementare l’attenzione degli ambienti economici verso il fenomeno della RSI. Già intorno al 1890, si diffuse nel Nord America un embrionale atteggiamento di CSR, forse più vicino alla filantropia, iniziato da Rockfeller , grande imprenditore che è ricordato per due cose: il suo stile rapace negli affari e la reinvenzione della filantropia . Molte grandi opere , ospedali, chiese e scuole del paese furono costruite dai baroni dell’industria. Poi negli anni 20, sempre negli stati Uniti, si diffuse un atteggiamento di tipo assistenzialistico delle aziende verso i propri lavoratori, che si concretizzava con larghe concessioni in alloggi, pensioni, assistenza, in cambio di maggiore benevolenza verso la concentrazione di poteri forti. Anche l’Italia vanta una grande tradizione di imprenditori illuminati che provvedevano a costruire per i propri dipendenti scuole e strutture stimolanti dettate anche da prospettive innovative , grazie a nomi come Adriano Olivetti, si è affermata una nuova concezione di realtà aziendale, che ha rappresentato un modello e un esempio per generazioni di sociologi, imprenditori, economisti architetti, designer.
Oggi, la diversità nei quadri politici ed economici nazionali, nel tessuto
imprenditoriale, nei sistemi di protezione dei lavoratori, nelle normative in materia ambientale e nelle modalità di realizzazione delle politiche e strategie di Welfare hanno dato luogo ad approcci alla responsabilità sociale d’impresa “differenti” a seconda delle tradizioni delle caratteristiche e delle sfide di ciascun Paese.
In definitiva sono fermamente convinta che questa tematica possa dare un’anima all’impresa , una sua trasparenza , in una calda atmosfera di fiducia e speranza per un mondo migliore, un’Europa migliore e più responsabile.