Analizzare la pubblicità dei profumi significa analizzare la pubblicità in generale. Questa infatti nasce come strumento immateriale in qualità di produttrice di senso ed è essa stessa un mercato. Un mercato che vende idee e solo di conseguenza prodotti, diventati, attraverso il processo pubblicitario, valori di essere più che d’uso. La necessità funzionale infatti, non è la sola motivazione che spinge un consumatore verso una preferenza piuttosto che un’altra, più spesso i significati mediati dalla pubblicità non sono immediatamente disponibili nella definizione stessa del bene materiale e occorre perciò ancorarsi a un immaginario sociale già consolidato o, meglio ancora, crearne di nuovi ad hoc. Come insegna Roland Barthes, gli accostamenti tra significati culturali e significati non già prestabiliti appaiono ai consumatori, naturali e ovvi: ecco come viene a crearsi, attraverso volti e situazioni, quello che Corrigan chiama passaggio di senso. La pubblicità diventa quindi un ambiente in se stessa o di se stessa e produce una raffigurazione ridotta e semplificata della realtà sociale in cui si creano esemplificazioni dei vari ruoli sociali, irreali ma fortemente comprensibili. Si tratta di quel fenomeno che Goffman chiama iperritualizzazione.

Il mercato dei profumi, nella fattispecie, non vende funzioni, ma sensazioni e modi di essere. Chiaramente la pubblicità dei profumi non potrà che allontanarsi da dimostrazioni di usi pratici, e sempre più si avvicinerà ad un polisensoriale suggerimento di atmosfere, umori e situazioni. Questo stabilisce paradossalmente la priorità della pubblicità rispetto al prodotto stesso: sarà la rappresentazione del profumo a farne la differenza, piuttosto che la fragranza in sé.

L’innovazione del mondo pubblicitario avviene con quella che Triani chiama Unique Selling Emotion. La USE si contrappone a quella che negli anni Quaranta veniva denominata Unique Selling Proposition: mentre in passato di un messaggio si sarebbe ricordato solo un aspetto, materiale, oggi se ne ricorda solo l’emozione provata. E’ la marca, nella maggior parte dei casi, a comunicare e trattenere questa emozione. La marca, il brand, nata come funzione mercantile, oggi si identifica con una persona ed è capace di comunicare “tutto il carico immaginario e onirico di una filosofia”. Il mindmark promuove quindi valori, stili di vita e talvolta perfino eventi, ma perché le emozioni, labili di natura, rimangano ancorate alla tradizione culturale e simbolica di un’azienda, il brand va curato e mantenuto. La relazione emozionale col cliente, come la chiama Triani, si perpetua producendo dei discorsi in cui ogni elemento, dal package all’ambiente comunicativo, concorre a produrre senso. Il discorso del brand è quindi una vera e propria narrazione composta da diversi attori e soprattutto, da diversi livelli. Un’analisi più specifica si può trovare nella tesi dell’autrice in cui vengono analizzati, nella loro natura e in alcune manifestazioni pratiche, i tre livelli (profondo, narrativo e di superficie) entro cui si genera il significato.

Da un punto di vista strettamente industriale insomma, siamo tutti consci che un profumo sia solo un profumo, ma nel momento in cui il suo nucleo di identità acquisisce un valore, questo lo si può attribuire ad ogni sua manifestazione d’essere. La marca, inserita nella natura dei valori, sdogana il prodotto dal suo essere razionale, e lo rendo un oggetto sociale a sé stante. La qualificazione simbolica riflette il valore desiderato e si ripercuote, come già detto, in tutta la sua immagine. Gli atti di questo discorso vanno però percepiti dai clienti perché essi si rivelino funzionali. Solo la capacità di evolvere il proprio discorso in accordo con la tradizione dei propri valori permette di perpetuare una posizione dominante e attiva sul mercato, il tutto in una continua contrattazione di senso tra l’azienda e la clientela.

Posizionamento del brand, qualità dell’immagine e del discorso non sono comunque sufficienti per sedurre il consumatore. Consapevole dell’importanza delle emozioni, il consumatore non vuole celare questa forma di giudizio personale. L’azienda deve saper dialogare attraverso le emozioni e le passioni in una struttura facilmente comunicabile, e quindi strettamente narrativa.

L’Emotional Branding, così come il Marketing Aesthetics, sviluppa due livelli opposti, ma complementari -quello estesico-patemico e l’intreccio del racconto- segnando, di fatto, l’affermarsi delle sensazioni sul piano delle scelte di consumo.
In definitiva, la sfida -oggi più che mai- si configura, non più tra i prodotti, ma tra le diverse percezioni degli stessi.