In inglese le grandi multinazionali del petrolio si chiamano major; il termine viene dal latino (è il comparativo di magnus "più grande"), e nel linguaggio comune identifica compagnie come: ExxonMobil, Shell, Bp, Total e Agip.
Le dimensioni di queste società quotate in borsa sono date dalla loro ricchezza, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli eccezionali, grazie alla crescita dei prezzi del petrolio: nell’estate 2006 il greggio ha raggiunto il prezzo record di 77 dollari al barile, mentre successivamente è calato, per poi risalire agli inizi del 2007.
In questa situazione di estrema volatilità chi ci guadagna sono soprattutto le aziende specializzate nella gestione dei rischi, in particolare gli esperti finanziari di Wall Street. La banca d'investimenti Goldman Sachs, per esempio, ha concluso ottimi affari offrendo contratti che proteggono, dagli alti e bassi del mercato, chi acquista petrolio. Dall'ottobre del 2004 a oggi, inoltre, i fondi d'investimento attivi nel settore dell'energia sono passati da 180 a 530.
I prezzi salgono a causa dell'instabilità in Medio Oriente, della crescente domanda di greggio in Cina e delle tempeste scatenate dal riscaldamento globale. Al contrario scendono se viene aperto un nuovo pozzo di petrolio, se l'inverno è mite o se si prospetta una guerra dei prezzi nell'Opec; ma in realtà sarebbe meglio analizzare le scelte della Nioc, Pdvsa, Adnoc o Saudi Arammo.
La sede della Nioc (National Iranian oil company) è a Teheran..
Quella della Pdvsa (Petróleos de Venezuela) si trova a due isolati dal palazzo Miraflores, dove lavora il signore di Caracas, Hugo Chávez.
La torre di vetro dell'Adnoc (Abu Dhabi national oil corporation) si trova in un grande viale della capitale degli Emirati Arabi Uniti.
Si tratta di aziende di stato guidate da dirigenti che fanno il bello e il cattivo tempo nei consigli dei ministri dei rispettivi paesi. In altre parole, in quelle nazioni il petrolio si confonde con lo stato.
Per molto tempo le multinazionali dell'oro nero – statunitensi ed europee – hanno creduto di poter imporre le loro volontà in tutto il mondo, portando la tecnologia in paesi ricchi di petrolio, ma privi dei fondi necessari per sfruttare i giacimenti. I contratti erano sempre a vantaggio degli investitori stranieri e lasciavano le briciole ai governi locali.
Da Mosca a Caracas, però, i capi di stato hanno capito che l'aumento del prezzo del petrolio è una nuova arma di guerra.
La Shell sta perdendo la sua licenza di sfruttamento del giacimento offshore di Sakhalin-(petrolio e gas) nel Pacifico russo, dove aveva investito quasi 20 miliardi di dollari in uno dei progetti petroliferi più ambiziosi degli ultimi dieci anni.
In Venezuela, il presidente Chávez ha imposto alle compagnie straniere delle condizioni molto sfavorevoli, obbligandole a "prendere o lasciare": alla fine le imprese hanno accettato, ma guadagnando molto meno del previsto.
In Bolivia il presidente Evo Morales, alleato di Chávez, ha deciso di nazionalizzare il settore degli idrocarburi.
In Africa, il Mali potrebbe presto entrare a far parte del ristretto circolo dei paesi produttori di petrolio, seguendo l’esempio del Ciad e della Mauritiana. Da quando si è ipotizzata la presenza del petrolio nel sottosuolo, il governo ha creato un organismo apposito per sviluppare il settore :”l’Autorità per la promozione della ricerca petrolifera”, e nel 2004 il Parlamento ha contattato le aziende straniere puntando su contratti di condivisione della produzione, anziché di concessioni.
Quanto al Golfo Persico è quasi inaccessibile: ormai da più di trent'anni le “petromonarchie” hanno chiuso ogni porta.
E anche i nuovi paesi petroliferi, come il Kazakhistan, cominciano a rivedere i termini dei contratti firmati con le aziende straniere.
Oggi le major controllano quasi il 10 per cento delle riserve petrolifere mondiali e hanno accesso solo al 25 per cento di quelle ancora da sfruttare. Il vero potere nel pianeta petrolio, dunque, non è più nelle mani dell'occidente, ma in quelle dei ministri dell'energia di Riyadh o di Caracas.