Con il 2009 ha avuto luogo il primo aumento dei versamenti previdenziali della variegata categoria dei lavoratori subordinati, che comprende tra gli altri i collaboratori a progetto e quelli occasionali: l’aliquota quest’anno è del 25,72%, e crescerà ancora al 26% del reddito nel 2010.
Un piccolo miglioramento nelle condizioni previdenziali dei lavoratori atipici, le cui condizioni restano però ancora lontane da quelle dei lavoratori dipendenti. E se la questione più evidente è quella della contribuzione, che per i dipendenti è al 33% del reddito, le differenze toccano anche altri aspetti non meno importanti.
Il primo è quello della copertura pensionistica: ai lavoratori dipendenti viene riconosciuto un anno di copertura pensionistica al versamento dei contributi corrispondenti a una retribuzione minima di 183,29 euro la settimana, per un totale di 9.530,58 euro l’anno. Al di sotto di questa soglia, il lavoratore si vede riconosciute una quantità di settimane di copertura pensionistica proporzionali ai contributi versati. Per gli atipici, però, la soglia minima è più alta, ed è legata al minimale dei commercianti, che nel 2008 era di 14.420 euro.

Un’altra differenza riguarda il riconoscimento ai fini pensionistici del servizio militare, o di quello civile, svolto prima dell’abolizione della leva: per i lavoratori dipendenti e per quelli autonomi, infatti, esiste il diritto alla copertura gratuita di questo periodo di tempo ai fini pensionistici. I lavoratori atipici, invece, questo diritto non l’hanno, ma possono recuperarlo quando stipulano un contratto di lavoro dipendente o diventano lavoratori autonomi.

Per quanto riguarda le assenze per malattia, infine, se dal 1 gennaio 2007 gli atipici possono ricevere l’indennità di malattia anche senza ricovero ospedaliero, il periodo di assenza non prevede contribuzione alla gestione separata dell’INPS, mentre per i lavoratori dipendenti la copertura è prevista per un massimo di 96 settimane nel corso della vita lavorativa.

Previdenza: per gli atipici restano le differenze

Una nuova riforma delle pensioni: non subito, in periodo di crisi, ma quando il peggio sarà passato.
A chiederla, e non per la prima volta, è stata Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria: ne hanno confermato l’utilità i ministri Sacconi e Tremonti, che pure ha invitato ad attendere la fine della congiuntura negativa, e persino Cisl e Uil hanno aperto al confronto su questo tema. Ma un’ulteriore riforma delle pensioni rischia di rompere completamente il patto tra la generazione mille euro e i pensionati di oggi.
Le pensioni pubbliche si basano, infatti, su un patto intergenerazionale, cioè sulla solidarietà tra generazioni: i lavoratori rinunciano a una (importante) parte del loro reddito, che viene utilizzata per pagare le pensioni, in cambio della garanzia che, in futuro, la loro pensione verrà pagata con i contributi dei lavoratori di domani. Un sistema che si basava su una popolazione con un’età media più bassa di quella attuale e il cui funzionamento è stato messo in crisi dall’invecchiamento demografico, una delle ragioni che ha reso necessaria una riforma radicale del sistema pensionistico.

Ma quella riforma ha anche rotto una delle clausole fondamentali di quel patto tra le generazioni: cioè che, a parità di prelievo dalle retribuzioni, le prestazioni pensionistiche di domani abbiano lo stesso valore di quelle di oggi. Le pensioni di domani saranno invece, con il nuovo sistema contributivo, nettamente inferiori a quelle di oggi. E questo senza alcuna riduzione dei contributi: con l’eccezione parziale dei pochi che andranno in pensione con il sistema misto, i lavoratori di oggi pagheranno la stessa cifra per una prestazione nettamente inferiore.

Una delle conseguenze è che l’innalzamento dell’età pensionabile andrà a vantaggio anche del lavoratore: con pensioni così basse, infatti, lavorare qualche anno in più permetterà di avere una pensione migliore. Ma l’innalzamento aggrava anche la disparità di trattamento rispetto alla generazione precedente: la cosiddetta “generazione mille euro” è la prima a passarsela peggio di quella che l’ha preceduta, sottoposta a una precarietà e a una flessibilità senza precedenti nel nostro paese.
Per quanto i diritti acquisiti non debbano mai, per definizione, venire toccati, forse si potrebbe cercare di distribuire in modo più equo il peso di un sistema che già attualmente è insostenibile, stabilendo un rapporto più giusto tra il prezzo da pagare oggi e il servizio che si riceverà in futuro.