La multinazionale americana Alcoa ha recentemente deciso di trasferire i propri impianti produttivi di alluminio dall’attuale sede di Portovesme, Sulcis, in Sardegna verso il mercato arabo. Poiché le agevolazioni godute in termini di bollette energetiche meno care, sospettate di costituire aiuti di stato vietati dal Trattato di Maastricht, sono attualmente oggetto di indagine in sede europea, la società ha potuto giustificare ufficialmente la propria decisione adducendo il prezzo eccessivo che dovrebbe pagare per l’energia.

La decisione della multinazionale americana avrà una ripercussione rilevante sull’economia nazionale. L’alluminio, la cui produzione intra-Ue non è affatto in grado di coprire l’intero fabbisogno comunitario, viene importato da paesi extra-Ue. Ebbene, l’Unione europea applica un’addizionale del 6% a queste importazioni, un dazio che ha forti conseguenze negative sull’intera filiera produttiva, che comprende un gran numero di settori produttivi, dalla componentistica auto agli elettrodomestici, dai materiali per gli infissi all’imballaggio.
Altra conseguenza ancora più grave e dagli effetti più immediati, riguarda il gran numero di posti di lavoro che saranno perduti e con essi il moltiplicarsi delle difficoltà finanziarie di molte famiglie.

Allo stesso tempo però occorre porre attenzione ad altre riflessioni. A fronte dell’esercizio da parte della società produttrice della propria facoltà di scelta in termini di localizzazione dei propri impianti, il governo italiano vorrebbe imporre la confisca degli impianti della società in Italia. Senza dubbio tale misura rappresenterebbe un’ingerenza nell’ambito dell’attività privata, anche se giustificata in termini di risarcimento dei gravi costi che la collettività ha sostenuto nel tempo per garantire la permanenza della società entro i confini nazionali. Tale ingerenza costituirebbe, però, un grave precedente in termini di reputazione del paese nei confronti delle multinazionali che intendessero localizzare in parte o in toto la propria produzione sul territorio italiano.

A fianco degli elevati costi energetici che tali società dovrebbero sostenere (secondo il recente rapporto Ocse, l’Italia ha il primato nei costi di energia in confronto a tutti gli altri paesi dell’Unione europea), vi sono anche altri costi e inefficienze che dovrebbero affrontare. In primo luogo, i contenziosi amministrativi e civili in Italia sono estremamente lunghi, dell’ordine di diversi anni. A tale non piena certezza del diritto, si affianca il livello elevato dell’imposizione fiscale (intorno al 43% o 45% del Pil a seconda delle diverse fonti istituzionali a fronte del 39% inglese, del 37% greco, del 35% spagnolo, del 36% della media Ocse e del 28% degli Stati Uniti). Il mancato rispetto da parte del governo della libertà di scelta delle imprese costituirebbe indubbiamente un ulteriore grave fattore di dissuasione.

Consci di molti di questi ostacoli, il governo ed il Parlamento stanno cercando di porre alcuni rimedi urgenti. Tutti i disegni di legge sulla giustizia in esame alle camere, dal processo breve al legittimo impedimento, dal lodo Alfano bis alla reintroduzione della immunità parlamentare rappresentano un primo passo in avanti verso una radicale riforma della governabilità del paese necessaria per qualsiasi altro provvedimento. Un ulteriore passo nella stessa direzione sarà costituito da una riforma più organica della giustizia.

Il problema della gravità dei costi dell’energia è stato affrontato e dovrà essere ulteriormente affrontato nell’ambito della politica energetica nazionale, che dovrebbe insistere in una più ampia politica energetica europea, per ora del tutto carente. La scorsa estate è stato approvato in Italia il quadro legislativo di riferimento per l’energia nucleare e, in piena tabella di marcia, proprio questa settimana le Commissioni Attività Produttive e Ambiente alla Camera sono impegnate nell’esame di atti del Governo in materia di energia e realizzazione di impianti nucleari. All’attenzione dell’opinione pubblica si pone, quindi, il tema dei siti che ospiteranno le centrali e l’impianto dello smaltimento dei rifiuti radioattivi. Il prossimo consiglio dei ministri che avrà luogo questa settimana dovrebbe identificare i luoghi dove far sorgere le programmate centrali nucleari. Tale decisione costituirà il primo vero passo del piano energetico del governo italiano.

La via maestra da seguire è senza dubbio quella della diversificazione delle fonti energetiche (a favore della produzione nucleare e dell’import di gas e a sfavore delle importazioni di petrolio), della realizzazione di infrastrutture che garantiscano l’approvvigionamento da mercati diversificati (come ad esempio i rigassificatori) e la produzione di energia a costi competitivi (appunto il nucleare), il tutto seguendo logiche di sostenibilità economica, che impongono ricavi maggiori dei costi. Tale via esclude a livello nazionale le fonti cosiddette “alternative” di energia eolica e fotovoltaica, in quanto contraddicono tutti i principi menzionati. In particolare, con la tecnologia fino ad ora acquisita la produzione eolica e fotovoltaica non copre i propri ampi costi e comporta la necessità di una sovvenzione pubblica alla produzione che costituisce, tra l’altro, un’eccezione de facto ai divieti del Trattato di Maastricht.

Restano in piedi altre questioni, che sembrano caratterizzare il nostro paese e la sua scarsa capacità di attrarre investimenti dall’estero. Gioca un ruolo importante nel momento delle scelte strategiche delle imprese la struttura dei costi dei nuovi insediamenti, in termini non solo energetici, ma anche e soprattutto in termini di efficienza dell’ambiente economico circostante. L’eccessiva burocrazia e l’inefficienza della pubblica amministrazione ostacolano ogni forma di imprenditoria, sia nazionale, sia e soprattutto internazionale.
Questi argomenti aiutano a comprendere la difficoltà italiana nell’attrarre investimenti dall’estero. L’Italia risulta essere, infatti, al quinto posto in graduatoria europea attraendo appena il 2% degli investimenti esteri extraUe, preceduta da Regno Unito (17%), Francia (9%), Germania e Spagna (6% ciascuna).

Pubblicato su www.litaliano.it il 9 febbraio 2010.
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