Conseguenze dell’allungamento della vita media
Condizioni essenziali: l’aumento della produttività e del reddito nazionale.


La crescita della speranza di vita, che dagli anni Settanta ha caratterizzato le nuove generazioni, costituisce uno dei fattori più importanti alla base della lievitazione della spesa per le pensioni. Dai grafici 1 e 2, elaborati sulla base delle tavole di mortalità dell’ISTAT, appare evidente che la speranza di vita cresce nel tempo e in misura maggiore per le donne che per gli uomini. Sulla base delle elaborazioni fatte fino ad oggi sappiamo che un uomo che nasceva nel 1930 aveva una speranza di vita alla nascita di 54 anni circa, mentre una donna di circa 56 anni; un uomo nato nel 1960 poteva sperare di vivere fino a 69 anni, mentre una donna fino a 73 anni circa; un uomo che è nato nel 2002 può sperare di vivere fino a 77 anni circa mentre una donna fino a 83 anni. La speranza di vita alla varie età di pensionamento è riportata nell’apposita tabella.




Secondo stime demografiche ancora da verificare, i nati nel prossimo decennio avrebbero una speranza di vita fino a 120 anni. Non è difficile immaginare gli scenari di questa evoluzione.





L’allungamento della vita media delle persone comporta, in proporzione, un aumento della vita non lavorativa e quindi non contributiva e, pertanto, un allungamento del periodo in cui il lavoratore percepirà la pensione, con un conseguente aggravio delle spese per la previdenza. Per compensare tali effetti negativi occorre introdurre modifiche nella modalità del finanziamento del sistema pensionistico o nella durata della vita lavorativa, o, infine, agire su entrambi gli aspetti allo stesso tempo.

La consapevolezza che occorresse una revisione nel sistema pensionistico ha portato nel 1993 ad una prima riforma che ha innalzato l’età di pensionamento (da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 anni per le donne). Ne è seguita una riforma immediatamente successiva, nel 1995, che modificava il sistema pensionistico passando dallo schema retributivo di liquidazione dei trattamenti al sistema contributivo, con evidenti effetti negativi sulla redistribuzione. Pertanto, quando il sistema contributivo sarà a regime per tutti, il valore delle pensioni, attualmente pari al 70% dell’ultima retribuzione, scenderà a valori molto bassi, qualcuno ipotizza fino ad appena il 35% dell’ultima retribuzione, con un certo riequilibrio nel bilancio degli enti previdenziali, ma con evidenti problemi per il bilancio dei pensionati.
Nel 2004, ha avuto luogo l’ultima riforma, che ha portato all’attuale sistema pensionistico. In primo luogo, ha concesso incentivi finalizzati a ritardare il pensionamento per anzianità. In secondo luogo, ha traslato nel tempo la data (dal 2008) in cui sarebbero stati presi in considerazione i nuovi requisiti di età (dai 60 ai 65 anni per le donne e oltre i 65 anni per gli uomini) e di contribuzione per godere del diritto al pensionamento di anzianità. In ultimo luogo, il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) che maturerà dopo il 2008 sarà trasferito ai fondi complementari di pensione o a società di assicurazione, a meno di un esplicito diniego del lavoratore. Quest’ultima innovazione, introdotta dalla recente riforma, segue la logica della diversificazione dei rischi garantita dalla coesistenza di due pilastri che sorreggano il sistema pensionistico, uno privato a capitalizzazione e uno pubblico a ripartizione, anche se la componente pubblica avrà un peso più importante. Allo stesso tempo, la riforma punta ad ampliare il sistema finanziario con operatori che abbiano un orizzonte di investimento di lungo periodo. Ma un’espansione della previdenza complementare e di operatori privati non può prescindere dall’introduzione di un fondo centrale di garanzia che possa appunto garantire i privati risparmiatori contro il rischio di fallimento di qualche fondo integrativo.

L’opera di riforma non è ancora conclusa, ed è tutt’oggi viva l’esigenza di una modifica del sistema pensionistico che permetta di sostenere l’onere della spesa per pensioni di una popolazione che invecchia, a fronte di una occupazione che non cresce in proporzione. Nel 1960 l’onere della spesa per le pensioni era appena il 5% del Pil nazionale. Nel 2002 è cresciuto fino a raggiungere il 15% del Pil. A parità di trattamento, l’allungamento della speranza di vita farà crescere l’incidenza sul Pil. La lievitazione della spesa per le pensioni in relazione a determinati aspetti (le pensioni di invalidità, i trattamenti di reversibilità in favore del superstite del lavoratore, il maggior onere per le pensioni sociali connesso con l’abolizione del livello minimo per i trattamenti) ha imposto il ricorso, dopo la riforma del 1995, alla fiscalità generale. Pertanto si è reso necessario un innalzamento della pressione fiscale per finanziare, oltre a tutte le altre spese, anche gli interventi assistenziali. Occorre considerare però, a tale proposito, che in futuro alcuni fattori sortiranno i loro effetti positivi sul livello di spesa per il sistema pensionistico. In primo luogo, queste riforme hanno provocato quello che gli economisti chiamano «effetto annuncio», ovvero l’insieme delle riforme, quella del 1993, del 1995 e poi del 2004, per la loro repentinità e soprattutto per la loro frequenza, hanno diffuso un senso di incertezza per il futuro, fino a condurre alla fuga dai posti di lavoro per coloro che non avevano precedentemente manifestato l’intenzione di andare in pensione. Con i passare degli anni, questo esodo dai posti di lavoro sarà meno frequente. Infatti, coloro che potevano anticipare le loro scelte lo hanno già fatto. Inoltre, le riforme, e in particolare la diversa forma di finanziamento, da retributiva a contributiva, manifesterà i suoi effetti positivi contenendo la spesa pubblica. Rimane sempre persistente il problema dell’allungamento della speranza di vita.

Nella riforma del 2004, come nelle riforme precedenti del 1993 e del 1995, esistono, inoltre, fattori di squilibrio derivanti dal sistema formale di calcolo, che non garantisce una equivalenza attuariale tra prestazioni e contributi. Giancarlo Morcaldo, in un suo recente scritto, dal titolo «Pensioni: necessità di una riforma», ha dimostrato che esiste uno sfasamento temporale con cui i coefficienti di trasformazione vengono rivisti per tenere conto dell’andamento della speranza di vita. Infatti, per poter tener conto di un allungamento della speranza di vita, occorre attendere dieci anni per considerare i nuovi calcoli statistici attendibili. Inoltre, occorre aspettare ben quattro anni affinché siano rese disponibili le tavole consuntive di mortalità elaborate dall’ISTAT e strumentali al calcolo ai fini pensionistici. Al contrario, l’esigenza di controllo che le modifiche apportate al sistema pensionistico stiano sortendo gli effetti desiderati in termini di copertura delle spese, impone una verifica periodica annuale o comunque piuttosto frequente sulla base di tavole di mortalità che siano riviste con assiduità, così come accade, ad esempio, in Svezia e in Germania. Il lavoro di Morcaldo evidenzia un secondo fattore di squilibrio che consiste nella sottostima della speranza di vita, di circa 1,3 anni per gli uomini con 65 anni di età e di circa 1,8 anni per le donne tra i 60 e 65 anni. Infine, un terzo e più rilevante fattore di squilibrio è l’uso dell’aumento del Prodotto interno lordo come tasso di capitalizzazione, strumentale al calcolo dei contributi, ed il rendimento dell’1,5 % l’anno ai fini della trasformazione del montante in rendita. Sorvolando sulle complesse formule attuariali e finanziarie, si può osservare che la condizione necessaria affinché un’assicurazione segua un regime sostenibile è l’utilizzo di un rendimento pari al valore che si otterrebbe se le riserve fossero investite sul mercato obbligazionario, azionario o in acquisti di immobili. Se si considera il tasso di crescita del Pil, piuttosto che il più appropriato tasso di crescita della produttività, il calcolo del montante risulterà sovrastimato.

Da un punto di vista meno attuariale e più economico, è possibile sostenere che le riforme del sistema pensionistico sono comunque vane nel caso in cui un paese non cresca nella sua ricchezza. Una crescita del Pil dell’1,5%, o di valori inferiori, che caratterizza l’economia italiana di questi ultimi due decenni, non garantisce la copertura sufficiente delle spese per il pensionamento. Per risolvere il nodo delle pensioni non ci si può limitare a ricorrere esclusivamente alla riforma del sistema e all’allungamento della vita lavorativa. La soluzione risiede nella crescita economica del paese che permetterebbe un maggior grado di copertura delle spese senza aggravio per i lavoratori. Ma la crescita economica si realizza aumentando la produttività del lavoro mediante investimenti in tecnologia, in ricerca e sviluppo. Per incentivare l’investimento occorre ridurre la pressione fiscale che grava sul sistema economico, imprese e famiglie, e ne impedisce la crescita. Quindi, prima ancora di riformare il sistema pensionistico si dovrebbe agire sul sistema produttivo del paese, facendo particolare attenzione alla produttività del lavoro che costituisce il bandolo della matassa da districare.

Pubblicato su Finanza Italiana marzo-aprile 2007