La storia del Banco di Napoli è indissolubilmente legata alla storia della città di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia91. Per raccontarne le origini facciamo un viaggio a ritroso nel tempo. Siamo nella Napoli del ‘500: una città dove convive la ricchezza definita spagnolesca dell’aristocrazia con l’indigenza del popolo; la grandiosità di edifici monumentali con la ristrettezza dei quartieri popolari. Vi è un gran proliferare di banche e banchieri, per lo più genovesi, di cui l’amministrazione spagnola si serve per disponibilità di crediti spesso spropositati rispetto alla struttura economica della città. Fra crisi periodiche, le attività dei banchi privati vanno via via esaurendosi. Per far fronte al problema del credito ai poveri, gruppi di benefattori (aristocratici e borghesi benestanti) iniziano a riunirsi in congregazioni religiose e finanziare così prestiti di denaro su pegno senza interesse. Fra queste pie istituzioni, è quella creata da Leonardo di Palma che ci conduce, nei secoli, fino al Banco di Napoli. Se le origini del Banco di Napoli si fanno generalmente risalire al 1539, anno di fondazione del Sacro Monte di Pietà, nella realtà sembra siano più antiche: da studi recenti è infatti emerso che progenitore del Banco fu la Casa Santa dell’Annunziata, la cui “cassa di depositi e prestiti” eseguiva operazioni di deposito, giro e credito dal 1463; già allora infatti si parlava di un “Banco dell’Annunziata”, riconosciuto come “banco pubblico” nel 1587. Sorgono agli inizi del Cinquecento dal “gratioso impronto”, vale a dire il prestito su pegno senza interessi creato per sottrarre i poveri all’usura. Il primo banco pubblico fu creato da due cittadini napoletani, Aurelio Paparo e Leonardo di Palma che, in conformità con i canoni della Chiesa che vietavano l’usura, diedero vita ad una istituzione che concedeva prestiti su pegno per piccole somme, senza interesse. Luogo di riunione della congregazione era, dapprima, l’abitazione di Leonardo di Palma, poi l’ospizio dei trovatelli della “Santissima Annunziata”; quando la congregazione ebbe una sede propria, creò una propria denominazione. Nasceva il Monte di Pietà. In breve tempo sorsero altri banchi pubblici in diversi quartieri della città la cui attività, sempre più vasta e diffusa in tutto il Mezzogiorno, andava dalla raccolta di depositi, all’emissione di “fedi di credito”, titolo assolutamente innovativo, rimasto una nostra esclusività. I banchi diedero impulso alle attività artigianali e commerciali, alla realizzazione di opere pubbliche, senza dimenticare la funzione precipua per cui erano sorti: portare assistenza ai poveri. La tradizione vuole che il Banco di Napoli sia sorto dall’unione di otto istituti: il Sacro Monte di Pietà, il Sacro Monte dei Poveri, il Banco della Santissima Annunziata, il Banco di Santa Maria del Popolo, il Banco dello Spirito Santo, il Banco di Sant’ Eligio, il Banco di San Giacomo e Vittoria, il Banco del Santissimo Salvatore. Nel 1809 Gioacchino Murat li fuse in un unico istituto: il Banco delle Due Sicilie, i cui capitali sostennero le attività imprenditoriali e la cui struttura mista (pubblico-privata) fu un modello di organizzazione creditizia. Con la proclamazione del Regno d’Italia, il Banco delle Due Sicilie fu denominato Banco di Napoli; iniziò ad esercitare nuove operazioni ed ebbe diritto all’emissione di banconote, esercitato fino al 1926. Fra le mille vicissitudini della storia, di cui è stato testimone e protagonista, il Banco ha mantenuto la sua funzione di sostegno delle attività economiche, imprenditoriali, produttive, soprattutto del Mezzogiorno. La sua vita secolare è intreccio fra attività creditizia, mecenatismo, sostegno della cultura e dell’arte. Dal periodo fascista in poi, il Banco di Napoli inizia l’opera di valorizzazione del Sud e ne favorisce l’industrializzazione. L’istituto di via Toledo cresceva poderosamente, ma con gli anni ‘90 affiorarono i primi problemi. Le consistenti perdite emerse nei bilanci del 1994 (1.147 miliardi) e del 1995 (3.155 miliardi) evidenziarono una profonda crisi che rese indispensabili interventi straordinari. Intervenne il Governo con uno stanziamento di 2.000 miliardi. Il Tesoro elevò la propria partecipazione al 99%. Il piano di salvataggio culminò con la cessione, da parte del Tesoro, del pacchetto azionario di controllo del Banco tramite un’asta vinta dalla cordata INA-BNL, che per 61 miliardi ottennero il 60% del Banco. Il controllo dell’istituto passò alla Banco Napoli Holding, una nuova società detenuta al 51% dall’Ina e al 49% dalla BNL. Nel secondo semestre del 2000, il Banco è entrato a far parte del gruppo SANPAOLO-IMI, il quale detiene il 100% del capitale ordinario e l’87,26% del capitale di risparmio.