Le preoccupazioni economiche e finanziarie legate alla grande crisi degli anni trenta, e l’avvento della rivoluzione keynesiana hanno, certamente, avuto il pregio di demolire le certezze dello schema concettuale dell’antica teoria quantitativa, in particolare, il suo universale carattere tautologico. Il modello keynesiano, infatti, ha segnalato, da un lato, come il raggiungimento della situazione di piena occupazione, che generalmente si accompagnava alla formulazione dell’impostazione quantitativa, fosse un evento irreale (grazie alla dimostrazione dell’esistenza di un equilibrio durevole di sottoccupazione) e, dall’altro, come la velocità di circolazione della moneta non costituisse un fattore costante, ma presentava un’accentuata instabilità.

In questa prospettiva, inoltre, l’elaborazione della successiva dottrina keynesiana ha fornito diversi contributi per provare, sul piano operativo della politica economica, l’irrilevanza e l’inefficacia degli interventi monetari, volti a rianimare un’economia colpita dalla disoccupazione. Il periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale, infatti, caratterizzato dal pericolo dell’ingente massa del disavanzo pubblico da amministrare e dal timore di gravi depressioni, in seguito alla difficoltà di riconversione dell’industria bellica, segnò, naturalmente nei paesi anglosassoni, l’affermazione di una politica denominata “cheap-money” (moneta-facile); il mantenimento di questa situazione significava circoscrivere allo strumento fiscale le concrete possibilità di manovra e di regolazione dell’economia.

La rinascita culturale di una teoria quantitativa, che potesse rivaleggiare con il predominio della concezione keynesiana, richiedeva perciò un’innovativa formulazione della domanda di moneta, che fronteggiasse le obiezioni dei keynesiani e fosse dotata, soprattutto, di un adeguato supporto teorico.

La sfida lanciata da Keynes, a proposito delle caratteristiche peculiari che determinano la domanda di moneta, fu raccolta, difatti, dall’economista Milton Friedman, che offrì la più raffinata rievocazione della teoria quantitativa, ponendo al centro della sua costruzione, l’esistenza di una relazione funzionale stabile tra la stessa domanda di moneta e un numero limitato di variabili, tra cui assume particolare rilievo il concetto di reddito permanente.

Il lavoro di Friedman parte dall’enunciazione di una funzione di domanda di moneta, definita a livello microeconomico. Secondo il celebre economista, la moneta rappresenta un tipo di attività patrimoniale, ossia un modo di detenere ricchezza, in quanto serbatoio, nel tempo, di potere d’acquisto per il consumatore, ed anche fonte di servizi produttivi per le imprese, in concorrenza con le attività finanziarie e i beni capitali fisici. La determinazione della quantità di moneta, sollecitata dalle esigenze del pubblico, risulta stabilita dalle implicazioni della teoria generale della scelta, vale a dire uguagliando l’utilità dei rendimenti marginali attesi dalle diverse forme che può assumere la ricchezza.

I fattori da cui dipende la domanda di moneta, quindi, saranno:
1. La ricchezza totale, che costituisce il vincolo di bilancio dell’operatore.
2. I gusti e le preferenze dell’operatore, che individuano la sua funzione d’utilità.
3. Il rendimento delle varie componenti la ricchezza, cioè quello della moneta e delle altre attività alternative, ivi compresi i beni fisici.

In pratica, secondo il pensiero di Friedman la domanda di moneta del pubblico è funzione della ricchezza e dei rendimenti sulle attività finanziarie e reali alternative alla moneta, nella composizione del portafoglio. In quest’ottica, il modello di Friedman presenta elementi di affinità, quali il concetto di moneta adottato e l’indicazione dei parametri rilevanti per la determinazione della sua domanda di moneta, con il metodo d’analisi seguito dalla teoria dell’approccio di portafoglio. Al riguardo, estremamente illuminante è la posizione di Patinkin, che afferma con risolutezza:
“ciò che Friedman ha realmente elaborato è un’elegante esposizione del moderno approccio di portafoglio alla domanda di moneta che […] può essere solo visto come una continuazione della teoria keynesiana della preferenza della liquidità”.

Nello stesso ordine di idee si esprime anche l’economista Johnson, ma la sua dichiarazione rileva un’importante differenza tra le due correnti dottrinali. In effetti:

“gli economisti monetari contemporanei, sia dichiaratamente keynesiani, sia quantitativisti, affrontano oggi la domanda di moneta essenzialmente allo stesso modo, come applicazione della teoria generale della scelta, sebbene i primi tendano a formulare la loro analisi in termini di domanda di moneta come attività finanziaria alternativa ad altre attività finanziarie, mentre i secondi in termini di domanda di servizi della moneta considerata come un bene”.

Pertanto, l’aspetto cruciale della contrapposizione tra i moderni keynesiani e i monetaristi risiede, sia nell’introduzione da parte di Friedman dell’ipotesi che la domanda di moneta sia una relazione stabile, che nella particolare definizione che egli dà di moneta e dei suoi rapporti di sostituzione con gli altri strumenti finanziari e monetari e con le attività reali.

A differenza dell’approccio di portafoglio, l’originalità della riformulazione friedmaniana della teoria quantitativa della moneta si manifesta nella minuziosa spiegazione delle stesse variabili che figurano nella funzione, e nelle conseguenze che si possono trarre dallo sviluppo delle ipotesi soggette a verifica empirica. Infatti, l’obiettivo centrale dell’intero lavoro friedmaniano è la continua necessità di giungere alla definizione delle relazioni causali fra le principali grandezze economiche, da sottoporre all’esame dei fatti oggettivi osservati, con il preciso scopo di indicare quelle regoli fondamentali che assicurino la stabilità e lo sviluppo dell’attività economica del sistema.

Vediamo, quindi, in dettaglio, le diverse grandezze che soddisfano la domanda di moneta di Friedman.

Anzitutto, la variabile W, che indica tutta la ricchezza reale e finanziaria dell’economia, ossia comprendente insieme alla moneta, alle obbligazioni, alla azioni e beni fisici non umani, anche il capitale umano. L’ultimo fattore misura l’effettiva abilità e formazione professionale dell’individuo, attraverso l’uso delle sue capacità lavorative, di produrre reddito. Nell’ambito della ricchezza totale viene riservata, quindi, una speciale considerazione alla ricchezza umana. La ragione di ciò è dovuta al fatto che le altre forme di ricchezza possono essere acquistate e vendute sui mercati, mentre la ricchezza umana non lo può essere. La limitata capacità dei possessori di ricchezza di sostituire alla ricchezza umana altre forme di ricchezza, e viceversa, ha spinto Friedman ad utilizzare una definizione onnicomprensiva di ricchezza nella sua funzione della domanda di moneta, ma con un’opportuna precisazione; ossia per fare qualche concessione al problema dell’assenza di un mercato specifico per la ricchezza umana, include nella funzione una variabile separata w che esprime il rapporto tra la ricchezza umana e quella non umana.

Poiché l’inclusione della moneta dipende dai servizi di comodità e di sicurezza che essa propone, come strumento di pagamento, il suo rendimento sarà fissato dalla quantità di beni e servizi, che un’unità monetaria riesce ad acquistare, ossia dal livello generale dei prezzi P.
Sempre, tra i parametri che specificano la domanda di moneta, troviamo, poi, il rendimento delle obbligazioni e delle azioni, quali attività finanziarie alternative e, quindi, essi sono possibili indici di sostituzione fra le stesse e la moneta.

Il rendimento nominale di un’obbligazione R, dipende dal tasso d’interesse ed anche dai guadagni e perdite in conto capitale.
Per quanto concerne le azioni ordinarie R, essendo il loro rendimento stabilito in termini reali, si dovrà prendere in considerazione oltre che il cambiamento del prezzo, pure le inevitabili fluttuazioni che influenzano il valore corrente delle azioni.
La scelta fra moneta e beni fisici, inoltre, sarà decisa dal tasso di variazione del livello generale dei prezzi, che stima il rendimento atteso delle attività reali non soggette a deprezzamento.

Infine, c’è da citare, la variabile residuale u, che esprime le influenze dei gusti e delle preferenze degli operatori e, dunque, l’utilità derivante dalla detenzione della moneta, perché essa procura anche prestazioni non strettamente pecuniarie, che s’identificano nel senso di sicurezza e nell’orgoglio del suo possesso.

Una volta terminata la descrizione delle diverse grandezze, secondo Friedman, la funzione di domanda di moneta assume la seguente formulazione:



D’altra parte, l’inserimento del capitale umano nella nozione di ricchezza, insieme alla esigenza di rendere la relazione in questione empiricamente verificabile, ha spinto, tuttavia, Friedman a sostituire, nella funzione, alla variabile ricchezza il valore del flusso totale di reddito opportunamente scontato. L’economista, infatti, partendo dal principio della teoria del capitale secondo cui il valore del capitale è pari al valore attuale del flusso di reddito, che da esso promana, sottolinea la seguente uguaglianza:



Dove il simbolo Y indica il reddito, mentre il termine r rappresenta un tasso d’interesse puramente teorico dato dal rendimento medio ponderato di tutte le attività che compongono il patrimonio.

Dalla definizione della precedente equazione, però, dobbiamo precisare che, nell’analisi di Friedman il reddito, che viene ritenuto diretto sostituto della ricchezza, non sarà il reddito rilevato statisticamente, giacché ad esso corrisponde un flusso lordo, composto da elementi transitori e nel quale non vengono dedotte le spese per mantenere intatta la capacità produttiva umana. La sostituzione può avvenire solo se si adoperi il concetto teorico di reddito permanente, che esprime il valore attuale di una media di ricavi futuri attesi dagli operatori e che poi assume nel contesto del modello la caratteristica di una variabile patrimoniale. L’esplicito impiego del reddito, come elemento indipendente della funzione di domanda di moneta, costituisce una decisiva innovazione della teoria neoquantitativa rispetto all’approccio del portafoglio, come ammette giustamente lo stesso Friedman:

“l’enfasi sul reddito quale surrogato della ricchezza, invece che come misura del lavoro che deve essere svolto dalla moneta, è forse concettualmente la differenza fondamentale tra la riformulazione friedmaniana e le precedenti versioni della teoria quantitativa”.

Ne consegue che una volta supposta la corrispondenza fra il concetto di ricchezza e il vincolo del reddito permanente, è possibile giungere alla seguente formulazione della funzione della domanda di moneta:



Ma l’allargamento del concetto di ricchezza e la sua sostituzione con il reddito permanente non esauriscono completamente le conclusioni del ragionamento del celebre economista. A questo punto, Friedman, infatti, procede alla trasposizione dal piano microeconomico al livello globale dell’analisi della funzione di domanda di moneta, attraverso la giustificazione di due importanti ipotesi:

1. Anzitutto, occorre evidenziare la condizione di stabilità della dispersione dei valori delle differenti grandezze fra le unità economiche. A questo proposito, Friedman, supponendo che nel tempo siano assenti problemi distributivi, (nel senso che la moneta domandata dipende soltanto dal valore aggregato o medio delle variabili in argomento e non dalla distribuzione di queste tra i vari soggetti), riconosce che sia possibile aggregare le rispettive funzioni di domanda individuali in una domanda di moneta complessiva dell’intera economia.

2. Il secondo presupposto è dato, invece, dall’assenza di illusione monetaria per cui le domande degli agenti sono espresse in termini reali e non cambiano in seguito ad una variazione delle grandezze nominali. Questa circostanza significa che la funzione di domanda di moneta in termini reali non risponderà a possibili oscillazioni del livello generale dei prezzi ed a mutamenti del reddito monetario. Di conseguenza, la funzione di domanda di moneta in termini nominali avrà la caratteristica di essere omogenea di primo grado, nei prezzi e nel reddito monetario, ed è possibile descriverla ricorrendo alle due parallele formulazioni:



Dove secondo Friedman, il simbolo v sottintende la velocità di circolazione della moneta rispetto al reddito e, quindi, la funzione in oggetto viene ad assumere una enunciazione analoga alla classica teoria quantitativa.

Dalla struttura formale dell’ultima equazione, oltre a rendere più esplicito il passaggio all’esame del funzionamento del complessivo sistema economico, si desumono altresì le principali assunzioni teoriche, che hanno contraddistinto il pensiero monetarista della scuola di Chicago.

1. Anzitutto, possiamo notare il privilegio d’analisi accordato al reddito nominale nell’individuare la domanda di moneta, rispetto alle altre variabili esplicative.

2. La moderata rigidità (o inelasticità) della domanda di moneta rispetto al tasso d’interesse delle attività finanziarie alternative. Questo si traduce nell’assunzione dell’ipotesi di una domanda di moneta stabile e, quindi, nella sostanziale uniformità della velocità di circolazione.
La proprietà della stabilità della funzione di domanda di moneta è stata avanzata, fin dai primi scritti di Friedman, come una delle proposizioni fondamentali del monetarismo:

“il teorico quantitativo accetta l’ipotesi che la domanda di moneta è altamente stabile, più stabile di funzioni come la funzione del consumo che sono offerte in alternativa come relazioni chiave. Da un lato, il teorico quantitativo non ha bisogno, e generalmente non lo fa, di affermare che la quantità reale di moneta domandata per unità di prodotto, oppure la velocità di circolazione della moneta, deve essere considerata numericamente costante nel tempo […] poiché la stabilità che egli si attende è relativa alla relazione funzionale tra la quantità di moneta domandata e le variabili che la determinano”.

Secondo il pensiero di Friedman, quindi, solo partendo dalla circostanza che la domanda di moneta sia assunta stabile e facilmente prevedibile dalle autorità si possono annunciare, con sicurezza, gli effetti delle variazioni dello stock di moneta sul reddito nominale e sul livello generale dei prezzi. In caso contrario, anche supposto che si possa controllare la crescita degli aggregati monetari, la relazione tra moneta e reddito nominale diventa imprecisa.

3. Un’elasticità della domanda di moneta rispetto al reddito nel lungo periodo superiore all’unità, il che conduce a qualificare la moneta come un bene di lusso. La giustificazione di questo assunto discende da due ordini di motivi. La prima ragione risiede nel fatto che essendo la moneta un’attività patrimoniale o un bene durevole, il flusso di servizi, che essa fornisce, diviene accessibile solo a partire da determinati livelli del reddito. Di conseguenza, a bassi livelli di reddito è il movente delle transazioni ad essere prevalente nella domanda della moneta; mentre al crescere del reddito, l’utilità di possedere moneta si manifesta per esaltare lo scopo precauzionale e speculativo.
La seconda causa si fonda sulla circostanza che la domanda di moneta dipenda positivamente dal rapporto w (ricchezza umana e non umana) e ciò, a sua volta, sale al crescere del reddito, facendo aumentare più che proporzionalmente la stessa domanda di moneta.

4. La prevalente autonomia delle decisioni delle autorità monetarie nel fissare rigidamente l’offerta di moneta, rispetto alle esigenze del pubblico e al comportamento del sistema bancario e, quindi, la possibilità di considerare esogena la funzione di offerta di moneta, ossia indipendente dalle altre forze che influenzano la domanda.
La scuola monetarista ritiene che il tasso di variazione dell’offerta di moneta possa essere utilizzato come indicatore primario, utile per comprendere l’impatto dell’azione della politica monetaria sul sistema economico.
In questo senso possiamo leggere le parole di Friedman:

“in via di principio, il maggiore o il minor grado di restrizione dipende dal tasso di variazione della quantità di moneta offerta confrontato con un tasso di variazione della quantità domandata, escludendo gli effetti sulla domanda provenienti dalla politica monetaria. Tuttavia, empiricamente, la domanda è altamente stabile, se escludiamo l’effetto della politica monetaria, così è sufficiente, in generale, riferirsi solamente all’offerta”.