In uno rivoluzionario saggio dal titolo, Cost inflation and the State of the Economic Theory, Wiles, con una curiosa mescolanza di accadimenti economici e di aspetti istituzionali, ha scelto l’esperienza inflazionistica degli anni settanta, quale dimostrazione più eloquente dell’incapacità e della difficoltà analitica della tradizionale teoria economica di fornire adeguati strumenti interpretativi ai nuovi cambiamenti strutturali delle economie capitalistiche.

Malgrado il linguaggio aspro e volutamente pungente, tipico del personaggio che l’autore intende rappresentare, il testo esprime abbastanza fedelmente quelle che sono le perplessità e le opinioni prevalenti nel mondo accademico, caratterizzate da una violenta reazione nei confronti degli insegnamenti della politica keynesiana, accusata di aver favorito la crescita del potere contrattuale delle organizzazioni sindacali, e, quindi, l’accelerazione dell’inflazione e la concomitante stagnazione dell’attività produttiva.

D’altro canto, nonostante la mancanza di rigore teorico che contraddistingue certi attacchi sbagliati alla posizione monetarista, Wiles, proponendo una versione estrema dell’ipotesi di spinta dei costi, ha avuto il merito, se non altro, di stimolare una fiorente ricerca scientifica e di provocare, nel contempo, un vivace dibattito pubblico negli ambienti accademici e nelle sedi istituzionali, sulle cause di propagazione del fenomeno inflattivo.

La consistenza analitica del messaggio di Wiles poggia essenzialmente in due distinte proposizioni:

1.“la sintesi macroeconomica keynesiana o monetaria è completamente fallita, perché non ha compreso che la funzione principale dei prezzi non è quella di allocare le risorse, bensì di coprire i costi”

2. Le richieste eccessive di aumenti salariali, senza dubbio la componente più importante dei costi totali, non sono determinate dal libero movimento delle forze del mercato, ma nascono dal capriccio e dalla fantasia dei dirigenti sindacali.

Da queste due premesse segue l’inevitabile conclusione che il tasso di crescita dei prezzi sarà influenzato necessariamente dal grado di variazione continua dei salari monetari, che, a loro volta, dipenderanno dalla cattiva volontà o meglio dalla struttura mentale dei capi sindacali. Secondo tale linea di ragionamento, la generazione di forti tensioni sul livello generale dei prezzi può essere spiegata, non facendo riferimento alla permissiva azione delle autorità monetarie e fiscali, ma solo conoscendo le inclinazioni dei sindacati, ed in particolare la loro rivalità, “quale forma nuova e perniciosa dell’effetto dimostrazione”, la cui analisi non è stata degnamente presa in considerazione dai diversi modelli economici.

La ragione del suo attacco forsennato al dominio, nel mercato del lavoro, dei gruppi sindacali muove dalla constatazione che le incombenti pretese retributive, tali da far innalzare con certezza i prezzi dei beni, producono nuove sacche di disoccupazione, dal momento che smorzano la fiducia degli operatori nei loro affari, riducendo in questo modo l’ammontare degli investimenti privati e, quindi, conseguenti profitti più bassi per le imprese.
In particolare, Wiles osserva che:

“Le rivendicazioni di aumenti salariali elevatissimi […] sono cose completamente nuove e universali nel mondo capitalistico. Sono originarie dell’America Latina, come la rapina e il potere degli studenti. Siamo minacciati per la prima volta nella storia dell’uomo dalla inflazione da costi galoppante. Anche l’inflazione da domanda è andata al galoppo in passato, ma, chiaramente, né i bilanci, né le banche, né gli investimenti privati sono responsabili della nostra attuale situazione, se si esclude il fatto che non hanno saputo resistere alla nuova ondata delle richieste salariali”.

L’inflazione, prosegue l’autore, non ha niente a che vedere con i livelli occupazionali, o con il sentimento di frustrazione degli agenti economici, causato dal mancato incremento degli stipendi in termini reali, perché, probabilmente, la collettività:
“nella particolarità della sua condizione finanziaria […] non ha alcuna idea compiuta dello sviluppo del proprio reddito reale”.

Non è possibile, secondo il pensiero di Wiles, predire oggi quello che sarà il tasso d’inflazione domani. L’analisi causale della contemporanea esplosione di salari, prezzi e disoccupazione, di cui gli economisti sono rimasti molto sorpresi, dipenderà, infatti, fondamentalmente dal grado di conoscenza di una grandezza poco decifrabile: “L’umore dei sindacati”.

Inoltre, la rilevanza dogmatica del concetto, secondo il quale viviamo in un mondo in cui opera il cosiddetto banditore walrasiano, che (in conformità a due assunti centrali, quali, da un lato, il raggiungimento del comportamento ottimizzante dei soggetti economici che si muovono in un ambito di certezza dovuto alla trasparenza del mercato, e, dall’altro, la perfetta flessibilità dei prezzi e dei salari) sottintende una tendenza continua, anche se graduale, all’equilibrio generale del mercato, è respinta assolutamente da Wiles.

Infatti, la costruzione di questo impianto teorico tradizionale, soprattutto di fronte alla profonda contraddittorietà ed all’incertezza del sistema capitalistico attuale, è considerato scopertamente irreale e inattendibile, perché, sostiene l’autore, è semplicemente il frutto di un’imperdonabile reminiscenza storica di un’analisi economica oramai superata.
Sebbene la visione di Wiles del processo inflazionistico sia intuitivamente attraente, sono state sollevati due interrogativi, prima che essa possa essere apprezzata come una spiegazione pienamente soddisfacente degli eventi allora correnti, e non naturalmente una serie di osservazioni incoerenti fatte ad hoc.

In primo luogo, nella tesi di Wiles cosa è in grado di fornire un’interpretazione dell’allarmante accelerazione del tasso d’inflazione, esplosa nel corso degli anni settanta, che praticamente ha sconvolto i maggiori paesi industrializzati?

In seconda istanza, quale ruolo effettivo è svolto dalle autorità monetarie nel controllare l’evolversi del processo inflazionistico?

Al primo quesito, l’autore replica che si sono verificati due rilevanti fattori non rigorosamente economici, in tutte le economie industriali, che spiegano l’inevitabile intensificazione della lotta tra le varie classi sociali, che rivaleggiano, nel processo distributivo, per appropriarsi di una maggiore porzione del reddito nazionale.

Innanzitutto, con il rapido sviluppo tecnologico delle comunicazioni nel mondo, si è accresciuta la consapevolezza della collettività di conoscere i criteri che presiedono alla scelta dei differenziali salariali esistenti tra le categorie produttive. L’impellente necessità di ottenere cospicue retribuzioni annuali, che si sono registrate nei settori industriali a produttività crescente, ha evidentemente spinto, tramite un pericoloso gioco imitativo, le altre forze lavorative operanti in comparti meno dinamici ad esigere il medesimo trattamento economico.

“Ci siamo spostati da rivendicazioni salariali basate sulla situazione corrente dell’industria, attraverso rivendicazioni basate su concessioni fatte in altre parti dell’economia per giungere a rivendicazioni colte nell’aria; un’aria che risuonava, per esempio, di richieste salariali di altri paesi”.

Questo veloce fenomeno emulativo produce, per l’intero sistema economico, esiti infausti, che incidono non solo sulla stabilità dei prezzi, ma anche sui livelli occupazionali, dal momento che gli alti costi del lavoro si pongono come serio ostacolo ad una proficua utilizzazione della capacità produttiva. Gli effetti di dimostrazione, quindi, fanno sì che i confronti economici internazionali nelle pressanti concessioni retributive, siano sempre più importanti e prevalenti, così che il saggio del salario nominale diventi semplicemente una cifra scelta per caso.

Una seconda possibile causa, di natura politica, che giustifica il perenne innalzamento delle pretese remunerative da parte dei sindacati è l’estendersi, dopo iniziali resistenze, “dalla sfera accademica e culturale fino all’area delle contrattazioni collettive”, del comportamento disinvolto e irrazionale della “Nuova Sinistra”, che conduce, a rigidità ed a sperequazioni pregiudizievoli, sia alla pace sociale, sia al progresso economico.
Alla seconda questione concernente il ruolo passivo delle autorità monetarie durante i periodi d’inflazione, Wiles risponde che esse convalideranno e sottoscriveranno tutti gli aumenti del livello dei prezzi, indipendentemente dalla loro origine. L’obiettivo principale delle autorità creditizie è il mantenimento della piena occupazione, e cercando di conseguire efficacemente questo traguardo esse saranno costrette ad adottare una politica monetaria compiacente. A tale riguardo, l’autore ha accolto una prospettiva d’analisi della politica monetaria, che non si discosta molto, per i suoi contenuti, da quella avanzata dai neokeynesiani: le autorità monetarie non interverranno nello smorzare la crescente spirale inflazionistica, perché il loro fondamentale scopo consiste nella difesa delle condizioni di piena occupazione e nel raggiungimento di bassi tassi d’interesse. L’offerta di moneta non dovrebbe essere ritenuta una variabile esogena, come avviene nelle teorie monetariste, bensì endogena, in quanto è funzione diretta del livello del reddito nominale.