Il fordismo rappresenta un continuum con il taylorismo. In pratica ne rappresenta l'applicazione nel settore automobilistico.
Henry Ford alla fine del 1908 concepì e realizzò un modello di autovettura unico e standardizzato: la Ford T. Nel 1913 introdusse e generalizzò il modello di lavoro “a catena” attraverso il reclutamento massiccio di manodopera generica. Ford percepì benissimo cosa significava in termini quantitativi, in un grande mercato come quello degli States, la domanda di agricoltori e liberi professionisti e il modo per soddisfarla attraverso un prodotto che rispondeva ai loro bisogni: la Ford T, spaziosa per una famiglia, facile da guidare, funzionale, senza accessori superflui, leggera e sufficientemente veloce e robusta per adattarsi alle asperità delle strade dell’epoca. Ford tentò di uniformare quasi completamente prodotto e produttore. Verso il 1917 il modello T fu prodotto, equipaggiato allo stesso modo e dipinto esclusivamente di nero.

Il modello fordista è infatti caratterizzato da una politica di prodotto che punta a offrire un modello standard a un prezzo vantaggioso all’insieme della popolazione questo grazie a una sua suddivisione in due o tre grandi gruppi sociali assai omogenei.
Ma il sistema produttivo fordista fu lontano dal realizzarsi prima del decollo delle vendite che costrinse gli ingegneri della Ford a trovare soluzioni per contrastare la difficoltà di reclutare il personale qualificato, attraverso l’utilizzazione di macchine utensili con le quali si ottenevano pezzi perfettamente intercambiabili e con operai senza particolare formazione. Si realizzarono così risparmi di tempo e manodopera grazie all’organizzazione della produzione, secondo un ordine sequenziale di fabbricazione e montaggio del veicolo.


La catena di montaggio

La catena di montaggio rappresenta una rottura della logica intellettuale del lavoro contrariamente al metodo Taylor. Essa implica un tempo uniforme per ogni postazione di lavoro e un identica lunghezza di “passo”. Da qui nasce un problema del tutto nuovo: per evitare le perdite di tempo, di spazio e le perturbazioni sulla linea, bisogna che gli operatori debbano svolgere per ogni postazione di lavoro un numero di operazioni il cui tempo e spazio di esecuzione si avvicini più possibile al tempo del ciclo e alla lunghezza del “passo”. A questo fine le operazioni vanno considerate indipendenti l’una dall’altra e distribuite in modo aleatorio tra le postazioni di lavoro. L’operatore è quindi costretto a memorizzare delle operazioni senza nessun legame tra di loro.
Al contrario il taylorismo, nella sua organizzazione del lavoro, scomponeva i compiti in operazioni elementari per trovare la sequenza ritenuta più efficace ed economica e non comprometteva la logica intellettuale della loro realizzazione (Boyer Freyssenet, 2005).

Le operazioni, inoltre, devono essere riprogrammate ogniqualvolta una modifica viene introdotta. La catena genera anche un’interdipendenza tra le postazioni di lavoro in modo tale che sorto un problema in una qualsiasi di loro, esso si ripercuote su tutte le altre. La catena si immobilizza appena una persona è assente, se sopraggiunge un guasto o l’approvvigionamento di un pezzo viene interrotto. Le perdite di tempo, le soste di produzione, posso aumentare anche del 50% il tempo teorico per realizzare una produzione

Solo nel tempo Ford capì che la clientela obbiettivo delle sue autovetture (in un primo tempo agricoltori e liberi professionisti) andava sostituita da quella dei dipendenti per poter proseguire con successo la sua strategia di grandi vendite e di economie di scala. Teorizzò, quindi, l’aumento delle retribuzioni dei suoi dipendenti per far lievitare la domanda ma, ingenuamente, immaginò che sarebbe stato sufficiente convincere delle proprie posizioni gli altri industriali come lui. Non capì che un circolo virtuoso di crescita richiedeva una contrattazione nazionale degli aumenti degli stipendi e quindi il riconoscimento dei sindacati (Boyer Freyssenet, 2005), quest’ultimi avversati da lui stesso in nome di un’autorità padronale che doveva rimanere incontrastata. Così nel 1941 Ford, dopo una feroce lotta, fu costretto a riconoscere i sindacati di categoria, qualche anno dopo General Motors. Quest’ultima, meglio della Ford, aveva capito che la crescita del mercato automobilistico richiedeva un progresso generalizzato e continuo grazie all’aumento del potere d’acquisto da parte della popolazione.

Ford trovò finalmente le condizioni necessarie per la “sua fabbrica”. Pur allargando la gamma a quattro modelli, negli anni ’50, e a sette, negli anni ’60, egli conservò il principio di veicoli standard e specifici per ogni grande segmento. Non cercò di mettere in comune le piattaforme dei suoi modelli, come invece faceva General Motors. Per continuare a incarnare lo spirito fordista, sarebbe stato necessario che la Ford concepisse dei modelli validi anche per l’Europa e il Giappone ma le grandi e pesanti vetture americane venivano rigettate dai gusti di quei mercati.

La Ford tentò nuovamente, scommettendo sulla globalizzazione degli scambi, negli anni ’80 e ’90 di riprendere la sua strategia delle “grandi vendite” lanciandosi in una politica di modelli specifici per ogni grande segmento del mercato mondiale ma senza troppa fortuna, cosa che fece riprendere alla Ford una politica di piattaforme regionali.