Il modello taylorista deriva il suo nome dal suo ideatore: Frederick Taylor, che preconizzò un sistema di produzione per risolvere un problema tipico della produzione diversificata in piccole e medie serie, e cioè che essa si svolgesse in stazioni fisse o in linea non meccanizzata. Il problema avveniva quando gli operai rallentavano deliberatamente il ritmo di lavoro. Il problema spariva, ovviamente quando il ritmo è imposto dalla macchina o dalla catena di montaggio.

L’organizzazione produttiva taylorista è volta a predeterminare i compiti da svolgere sia nel campo della fabbricazione sia in quelli della progettazione e dell’amministrazione tramite una messa a punto di procedure e di modi operativi da seguire alla lettera.

Il vocabolo “Taylorismo” ampliò il suo significato man mano che veniva adottato da aziende, sempre più in maggior numero. Divenne, a partire dagli anni ’60, sinonimo del frazionamento dell’esecuzione del lavoro, con una conseguente ed eccessiva suddivisione dei compiti. In seguito alla grande crisi a cavallo tra gli anni ’20 e gli anni ’30 il taylorismo dovette fronteggiare una critica dovuta, da un lato, alla sua indifferenza verso l’importanza dei rapporti umani sul lavoro e, dall’altro, alla sua più o meno esatta responsabilizzazione della disumanizzazione del lavoro. Il taylorismo conobbe una considerevole estensione di significato in quanto veniva assimilato non solo al “sistema Ford”, ma anche alla civiltà industriale stessa. Strada facendo, la diffusione della microelettronica e dell’automazione flessibile, le esigenze di un mercato sempre più concorrenziale e diversificato incitarono a profetizzare l’avvento d’un modo di produzione che avrebbe riconciliato produzione di massa e produzione personalizzata.