La nuova economia delle migrazioni è una teoria, di reazione a quella neoclassica, che si sofferma sugli altri mercati che possono condizionare la migrazione oltre a quello del lavoro. La sua unità d’osservazione non è più la razionalità individuale ma la razionalità familiare. La scelta di migrare non appare più solo una semplice scelta di convenienza individuale, ma una strategia familiare per massimizzare i guadagni e ridurre i rischi.

Questa strategia è determinata da due elementi principali: il primo è la mancanza di apparati di welfare che assicurano i servizi essenziali (istruzione, sanità…) alle categorie più deboli. Di conseguenza l’emigrazione appare un ottimo modo per assicurare ai figli minori una buona istruzione ed ai genitori anziani l’assistenza necessaria.
Il secondo elemento è il rischio di “fallimento del mercato” determinato da un clima di così rapida modernizzazione economica come quella dei PVS. La scelta di far emigrare un proprio familiare per un breve periodo appare doverosa in un clima così instabile, affinché attraverso la diversificazione degli impieghi del lavoro familiare (taluni lavoreranno in campagna, altri in città, altri all’estero) si possa comunque garantire la sopravvivenza della famiglia.
Un altro elemento che rientra nella nuova economia delle migrazioni è quello della “deprivazione relativa” (R.K. Merton, 1950), ovvero la convinzione di vivere in condizioni peggiori degli individui e delle famiglie che compongono il proprio “gruppo di riferimento”, ossia il gruppo scelto come base di confronto per l’autovalutazione. Gli immigrati non vengono da posti poveri ed isolati ma viceversa da regioni e nazioni che stanno vivendo un repentino sviluppo non a caso chiamati Paesi in Via di Sviluppo (d’ora in poi PVS).
Non è il reddito in valore assoluto che fa sentire gli individui più o meno poveri, ma la percezione di una società in cui i livelli di reddito sono in costante crescita ad esempio grazie alle rimesse (non a caso quando i livelli di benessere crescono, è più facile che la pressione migratoria aumenti). Nel breve periodo le migrazioni non derivano dalla carenza dello sviluppo economico ma dal rapido avanzamento dello sviluppo stesso. Il gruppo di riferimento non coincide sempre con quello effettivo di appartenenza ma è spesso rappresentato da quello che si vorrebbe fosse. In questo contesto possiamo riconoscere anche la socializzazione anticipatoria di F.Alberoni, G.Baglioni (1965) condizionata dalla presenza nei paesi in via di sviluppo delle grandi multinazionali, del turismo internazionale e dei mezzi di comunicazione di massa di stampo occidentale. Nei paesi in questione viene favorita la diffusione di valori e modelli di comportamento delle aree più sviluppate e indotte esigenze di consumo e comportamento che gli abitanti dei PVS non immaginavano sino a qualche anno fa. Gli abitanti si trovano di conseguenza ad essere anticipatamente socializzati alla cultura e ai consumi dei paesi occidentali ancor prima di esservi giunti, al punto da innescare una volontà migratoria. La distanza geografica non significa più distanza culturale. Nonostante in questi anni siano stati adottati,a livello europeo,regimi restrittivi per limitare l’accesso degli immigrati, i flussi migratori non hanno subito alcun rallentamento. Consideratosi conclusa nel 1973 la politica d’attrazione esercitata dalle maggiori nazioni europee, si è fatta largo la convinzione che fossero prevalentemente i fattori di espulsione dal proprio paese (come sottosviluppo e crisi economiche) a causare la migrazione.