Hymer pone il problema di verificare il momento in cui le imprese preferiscono realizzare investimenti diretti all’estero finalizzati alla produzione locale, piuttosto che il momento opportuno per continuare ad esportare prodotti fabbricati nel paese di origine.
Il modello di Hymer pone al centro dell’attenzione l’impresa e non il singolo prodotto. Hymer parte dalla constatazione che la teoria tradizionale, quella neoclassica, non spiega l’esistenza di investimenti reciproci tra i paesi avanzati; egli ricerca, quindi, nelle caratteristiche dell’impresa le determinanti del processo di internazionalizzazione.

L'economista assegna all’impresa l’obiettivo di accrescere il proprio potere di mercato e la quota di mercato, in quanto a questa ultima si associa un tasso di redditività del capitale investito più elevato rispetto a quello dei concorrenti. La possibilità di aumentare la quota detenuta si collega alla capacità di erigere e di mantenere delle barriere all’entrata che scoraggino i nuovi concorrenti e che obblighino, in modo coatto, i produttori meno efficienti ad uscire dal mercato. Tali barriere possono ricondursi al possesso di vantaggi competitivi di varia natura, riguardanti il controllo tecnologico, le economie di scala, la notorietà della marca, il patrimonio di conoscenze e competenze e il controllo dei canali distributivi.
Nella fase iniziale di sviluppo delle imprese, il mercato servito è quello interno, a causa delle difficoltà che si frappongono alla vendita sui mercati esteri.

L’impresa cresce a livello nazionale attraverso un processo di concentrazione (aumento delle quote di mercato, acquisizioni e fusioni) che le consente di ottenere profitti sempre maggiori. Ad un certo punto, tuttavia, il processo di concentrazione a livello locale non può più essere spinto oltre a causa di un numero ristretto di grandi imprese;pertanto, l’elevato profitto derivante dal grado di monopolio raggiunto è rimasto utilizzabile per investimenti all’estero, aventi come obiettivo l’estensione del processo di crescita anche oltre frontiera.
Una volta scelta la produzione in loco nei confronti delle esportazioni, l’IMN dovrà decidere se intervenire direttamente (tramite IDE) oppure cedere licenze a produttori locali. Tale scelta sarà condizionata soprattutto dalla natura degli specifici vantaggi competitivi posseduti dall’impresa. In particolare, l’IDE risulterà favorito quanto più i vantaggi competitivi dell’IMN consistono nel possesso di know-how specialistico e di altri intangible assets, che difficilmente possono essere giustamente valorizzati tramite la cessione di licenze.

A questo punto l’autore si pone il problema dei motivi per i quali l’impresa decide di sfruttare il proprio vantaggio competitivo tramite l’IDE anzicché vendere ad un’impresa locale tramite qualche forma di accordo contrattuale. Secondo Hymer, una impresa qualora decida di dar vita ad una propria unità organizzativa all’estero è destinata ad incontrare una serie di svantaggi competitivi. Essa si trova ad affrontare costi connessi alla necessità di interagire con culture, con lingue e con sistemi amministrativi diversi che rendono più costosa la sua operatività rispetto alle aziende già presenti nel territorio. Inoltre, per una impresa estera, i costi per l’acquisizione di determinate conoscenze, soprattutto del mercato, possono essere rilevanti.

Perché le imprese, nonostante la presenza rilevante di questi costi, decidono di realizzare investimenti diretti all’estero?
Le motivazioni sono da ricondursi, principalmente, al possesso di vantaggi di tipo oligopolistico riproposti dall’impresa stessa su scala internazionale. Più precisamente, quando una impresa decide di investire all’estero dovrà poter compensare i maggiori costi sostenuti con dei vantaggi competitivi durevoli. E’ proprio per effetto di questi vantaggi che le aziende riescono ad essere competitive.
Dunque, l’IDE può avvenire solo in presenza di imperfezioni di mercato tali da indurre le imprese a sostituire la tradizionale esportazione all’investimento diretto.