La genesi di una delle più grandi e conosciute multinazionali produttrici di automobili è, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, relativamente poco conosciuta, ed ogni riferimento ad essa è osteggiato con vigore dall’azienda stessa.
È nel 26 maggio del 1938 che viene posta la prima pietra del complesso industriale che a tutt’oggi costituisce il nucleo della cittadina di Wolfsburg, la sede centrale della Volkswagen AG. Sono presenti le più alte cariche della gerarchia nazionalsocialista e dell’esercito, con il contorno di tedeschi festanti e dei ragazzini della Hitlerjugend. È l’inaugurazione di quello che dovrà diventare il più grande complesso industriale della Germania, perché Adolf Hitler aveva deciso che era arrivato il momento in cui “ogni bravo tedesco padre di famiglia doveva avere la possibilità di acquistare un’automobile”. Già durante il salone dell’auto del 1934 Hitler aveva manifestato il desiderio di togliere all’automobile la sua caratteristica di privilegio esclusivo della classe benestante, di dare a ogni tedesco “una vettura che non costi più di una motocicletta e che consumi poco carburante”. La vettura del popolo fu battezzata dal führer stesso “Kraftdurch Freude Wagen”, l’auto della forza attraverso la gioia, e per realizzarla venne chiamato uno dei migliori produttori di automobili dell’epoca, l’ingegner Ferdinand Porsche. Lo stesso complesso abitativo costruito attorno alla fabbrica fu a sua volta chiamato “KdF-Stadt”, la città della forza attraverso la gioia. La fabbrica destinata a realizzare il progetto di Hitler venne chiamata Volkswagenwerk, la fabbrica dell’auto del popolo.
La nuova fabbrica doveva dare un’ulteriore dimostrazione della superiorità tedesca nel settore automobilistico rispetto al resto del mondo: nelle corse lo era già, grazie alle auto Union costruite proprio da Porsche. E poi era necessario rispondere all’umiliazione inflitta dalla General Motors, che dopo aver acquistato pochi anni prima la Opel aveva messo in vendita la Kadett, un modello di utilitaria a un prezzo troppo alto per un lavoratore tedesco: duemila marchi. Ecco perché il principale vincolo imposto da Hitler fu il prezzo: non più di mille marchi, la metà della Opel. Doveva poi resistere alle intemperie dell’inverno tedesco, mantenere una velocità di crociera di 100 chilometri orari, districarsi senza fatica su strade non asfaltate, consumare poco e aver bisogno di poca manutenzione. Il contributo di Porsche fu fondamentale alla nascita della Volkswagenwerk: sia come progettista di quella che si sarebbe in seguito rivelata come l’automobile di maggior successo nella storia dell’industria dei trasporti, sia come ideatore e propulsore del concetto di auto del popolo. Fin dal 1932 aveva cercato di trovare dei finanziatori per sviluppare il suo progetto, ovviamente su scala molto più ridotta di quella voluta da Hitler, di un’automobile per le masse, affidabile ed economica. Egli era una personalità di spicco nell’industria automobilistica della Germania, avendo già ottenuto numerosi riconoscimenti nelle competizioni, ma stentava a trovare dei sostenitori in quest’impresa. A favorire Porsche nella realizzazione del suo progetto fu Jacob Werlin, consigliere automobilistico di Hitler, che portò all’attenzione del führer il progetto di una Volksauto. Secondo alcuni eminenti storici è possibile che i primi schizzi del futuro maggiolino siano riconducibili addirittura al dittatore nazista, pittore dilettante.
L’impresa di progettare e produrre un’auto con le caratteristiche suindicate era notevole per i tempi, ma Porsche ottenne la massima collaborazione e fondi quasi illimitati dalla gerarchia nazionalsocialista, e quattro anni dopo, alla cerimonia di inaugurazione, erano presenti già tre modelli della “Typ-38”: la prima versione della macchina del popolo. Fu il corrispondente del New York Times a soprannominare l’auto “beetle”, maggiolino, ispirato dalle sue forme rotondeggianti.
La prima versione sarebbe stata anche l’ultima a nascere sotto l’egida nazista: pochi mesi dopo scoppiava il secondo conflitto mondiale, e tutta la produzione tedesca veniva convertita allo sforzo bellico. I progetti di Porsche vennero adattati alle diverse condizioni di terreno dei fronti di combattimento; vennero così create la Kübelwagen, versione fuoristrada della Typ-38 e la Schwimmwagen, versione anfibia. Durante la guerra, data la scarsità di combustibile, furono elaborate artigianalmente delle versioni alimentate a legna e a carbone. Ma il contributo della Volkswagenwerk allo sforzo bellico non si esaurì con le versioni modificate della Typ-38; si spinse infatti ben al di là della sua produzione tradizionale. A metà del conflitto l’azienda produceva oltre alle auto anche parti di motore di aeroplano, mine, bombe a mano e parti dei missili V1 e V2. Tra il 1940 e il 1945 vennero fabbricati circa 60mila automezzi militari, e a partire dal 1942 la Volkswagenwerk divenne la più grande azienda di tutto il Reich. Un gran numero degli operai non specializzati che lavoravano al suo interno erano prigionieri di guerra, prevalentemente provenienti dai paesi dell’est, che sopravvivevano fra stenti e privazioni in un lager appositamente costruito all’interno del complesso. Nel 1940 il loro numero era di circa 11mila, il 60% del totale degli operai. È di quest’anno la notizia, diffusa ampiamente dai quotidiani, relativa alla creazione di un fondo da parte dell’azienda destinato a risarcire i prigionieri di guerra ancora in vita. Durante gli ultimi anni della guerra la produzione subì numerosi arresti, dovuti ai frequenti bombardamenti alleati, fino all’agosto del 1944, quando i danni furono così ingenti da non consentire più la ripresa dei lavori. Dopo la resa dell’esercito tedesco, nella spartizione della Germania fra Stati Uniti e URSS, la fabbrica e la cittadina circostante finirono nella zona sotto il controllo alleato.Nei mesi successivi alla cessazione delle ostilità il futuro della Volkswagenwerk era quantomai incerto: i francesi avrebbero voluto demolire la fabbrica e prendersi i macchinari superstiti; gli inglesi, subentrati agli americani nel 1945, erano invece convinti della necessità di riavviare la produzione industriale del paese nel più breve tempo possibile, e per questo motivo assegnarono ad un comando speciale il compito di sovrintendere la ricostruzione industriale della fabbrica di Wolfsburg. Il comando fu affidato al maggiore Ivan Hirst, contrario alla dispersione del potenziale tecnico ed umano di Wolfsburg, e fiducioso della bontà del progetto di Porsche.