L'unico mercato al mondo in cui si compra e si vende qualcosa che non esiste è lo scambio dei titoli "non CO2": chi ha emesso meno anidride carbonica del tetto previsto, vende questo risparmio a chi non c'è riuscito.
Anche qui ci sono i trader davanti agli schermi dei loro computer, su cui si accendono le caselle "bid" e "offer", compra e vendi, e dove sono transitati, l'anno scorso, 1.600 milioni di tonnellate di materia prima, il doppio del 2005, per un giro d'affari di tutto rispetto di 30 miliardi di dollari, oltre 22 miliardi di euro.
Il grosso degli economisti, in linea di principio, preferirebbe una semplice tassa, la carbon tax, e, a sorpresa, anche molte aziende. Il motivo è che la tassa offre meno incertezze, poiché si conosce il prezzo della CO2, ma non la quantità di emissioni che ci saranno. Con il tetto si sa quante emissioni ci saranno complessivamente, ma non il prezzo, che può oscillare anche di molto, diventando un pericolo per le aziende. Intanto, il mercato delle emissioni resta un fenomeno sostanzialmente europeo (l'80 per cento del giro d'affari riguarda la Ue, l'unica area del mondo in cui il sistema sia obbligatorio) e, dunque, ha un carattere soprattutto dimostrativo. Ma anche la sola sperimentazione europea ha collezionato una serie di fallimenti: nei due anni in cui il sistema è stato in vigore, le emissioni complessive europee sono diminuite solo del 2 per cento, contro l'8 per cento previsto.
Il successo più importante, però, è aver fatto entrare nella testa (e nei conti) delle aziende che la Co2 è un costo, non generico e collettivo, ma concreto, misurabile e individuale.