Appare quanto mai conveniente assumere come punto di partenza gli studi consolidatisi sul concetto d’impresa, che oggi, portano ad affermare, con più che giustificata serenità, come l’impresa debba necessariamente qualificarsi quale centro d’interessi eterogenei. L’impresa è l’atomo intorno al quale si muovono le diverse cariche.
V’è da chiedersi, in via prodromica, quale sia l’elemento necessitante lo studio dell’impresa, o meglio, capire come mai, in passato si è riconosciuta l’impresa quale istituto giuridico riconducibile nell’alveolo della proprietà, istituto per antonomasia, principe dello iure privatorum, e al contempo si è ascritta un essenza sociale dell’istituto, sia in quanto proprietas sia in quanto impresa strictu senso.
Il primo interrogativo è proprio sul concetto d’impresa, ovvero, economicamente, impresa significa “organizzazione dei fattori della produzione: natura, capitale e lavoro”1. Secondo interrogativo: quomodo questa organizzazione economica, questo fenomeno economico appare di fronte al diritto? Il celebre giurista italiano Alberto Asquini, nel 1943, elaborò uno studio chiamato “I Profili dell'Impresa” affermando che l'impresa si presentava davanti al diritto sotto quattro diversi aspetti o profili. Sotto il profilo soggettivo, l’impresa appariva come imprenditore o società imprenditrice. In secondo luogo, sotto il profilo funzionale, appariva come l’attività organizzata per la produzione o circolazione di beni o di servizi sul mercato. In terzo luogo, sotto il profilo oggettivo e/o patrimoniale, appariva come stabilimento, ossia, come quel complesso di beni che l'imprenditore predispone per l'esercizio della sua attività; finalmente, sotto il profilo corporativo, come un’istituzione. Ossia, come quella “organizzazione di persone e beni, includendo l’imprenditore e i suoi collaboratori, considerando un senso più ampio persino politicamente (l'impresa vista come una ''gran famiglia'')”. Sotto questo profilo, lo studio ci impone ricordare che in Italia, nel 1942, era in vigore il corporativismo fascista. Il richiamare Asquini ha la sua ragione al fine di verificare come il fenomeno “impresa” sia per sua natura poliedrico e si presenta, presso il diritto, con tutti questi profili. Pertanto possiamo dire che l’imprenditore, o la società imprenditrice, è il soggetto di diritto. Lo stabilimento imprenditoriale è oggetto di diritto. Parallelamente l’impresa, nel senso di attività, è un fatto giuridico. E’ cosa nota come il Codice Civile italiano, manchi nel definire l’impresa. Esso definisce imprenditore, e definisce stabilimento. In questo modo, il concetto d’impresa strictu senso, come attività, è estratto dalla coniugazione di due dispositivi: l’articolo 966 c.c. e l’articolo 1142 c.c. L'articolo 966 c.c. dice quanto segue: “Si considera imprenditore colui che esercita professionalmente un'attività economica organizzata per la produzione o la circolazione di beni o di servizi”. Imprenditore, cos'è? È colui che esercita un’attività organizzata per la produzione e circolazione di beni e di servizi. L'articolo 1142 c.c. dice, a sua volta: “Si considera stabilimento tutto il complesso di beni organizzato, per l'esercizio dell'impresa, da un imprenditore o da una società imprenditrice”. Ricaviamo quindi, dalla coniugazione di quei due dispositivi: gli articoli 966 e 1142 c.c. , che il concetto d'impresa, strictu sensu, è attività economica organizzata.
Ogni istituto giuridico è diretto per sua natura ad assolvere una funzione sociale e concorre a realizzare lo stabilirsi di equi rapporti sociali2. L’interprete non può sottrarsi al compito di precisare il criterio in base al quale l’attività del proprietario si determina nel nome della solidarietà sociale; altrimenti o resta nel vago e nel generico, oppure si limita ad accertare che nella nozione di proprietà vi è un elemento sociale, magari prevalente, in antitesi all’elemento individuale. Già nella Carta del Lavoro del periodo corporativo, poteva evincersi una chiave interpretativa di stampo sociale in ordine al concetto d’impresa.
Il discorso deve adesso interpretarsi in ordine a quella corrente (chiamiamola cosi) secondo cui l’impresa si ascrive nell’alveolo della proprietà.
La funzione sociale modifica «la struttura tradizionale riconosciuta alla proprietà» (scrive M.Costantino). Si tratta quindi di una una radicale innovazione nel modo di disciplinare la proprietà – pubblica e privata –, nel modo di analizzare la proprietà, nel modo di coordinare gli interessi dei privati con l’interesse generale. E si tratta, ancora, di una formula con evidenti valenze ideologiche.
«La Costituzione della Repubblica – osservava De Martino, nel suo commentario alla disciplina della proprietà privata – ha riconosciuto e disciplinato il diritto di proprietà individuale (art. 42) ma ha accolto il concetto della «funzione sociale» come scopo della proprietà.
Sotto la prevalente influenza dell’ideologia cristiano-sociale, i cui punti di contatto con le dottrine corporative vennero decisamente lasciati cadere in un momento storico del nostro paese, nel quale l’Assemblea Costituente condannò tutto intero il fascismo, il suo regime politico e le sue concezioni corporative.
Del resto, essendo la Costituzione il risultato di un accordo politico fra correnti socialiste e correnti cattoliche, l’ideologia cristiano-sociale fu grandemente attenuata; in particolare, si tolse il riferimento alla «proprietà privata frutto di lavoro e di risparmio», nozione assai vaga e generica, la quale sotto il contenuto etico, afferma nettamente la legittimità dell’accumulazione capitalistica».
La formula della funzione sociale della proprietà, indi dell’impresa – di cui si devono esaminare i diversi significati in connessione con le garanzie della proprietà e con i compiti assunti dalla Repubblica in ordine alla rimozione delle differenze economiche e sociali tra i cittadini (art. 3 co. 2° Cost.) – rappresentò, già nella discussione alla Assemblea Costituente, una importante conquista. Piero Calamandrei ebbe appunto a considerare la formula della funzione sociale della proprietà come l’emblema della nuova società civile che si andava costruendo dopo il periodo della dittatura, vero e proprio segno di una rivoluzione sociale.
Comunque sia, nelle diverse proposte portate all’attenzione dell’Assemblea Costituente, si mescolarono gli aspetti della disciplina della proprietà e di quella dell’impresa. Questo avvenne non per scarsa consapevolezza delle diverse dimensioni concettuali e operative in cui la nozione di proprietà e quella d’impresa dovevano essere collocate, ma perché si partiva dal presupposto che sarebbero state le decisioni di principio in materia di proprietà a definire il quadro d’insieme all’interno del quale sarebbero state poi coerentemente tracciate le specifiche linee di disciplina dell’impresa.
Dietro questa impostazione c’è stata forse un’arretratezza culturale, che non faceva percepire come la stessa questione della proprietà dei mezzi di produzione potesse risolversi tutta nella disciplina dell’impresa. Taluni ritengono che lo strettissimo collegamento tra i due temi, e la riduzione a momento residuale (anche se fondamentale) della disciplina proprietaria in senso stretto, riflette proprio quella preferenza per i problemi della proprietà industriale ricordata da Pasquale Saraceno. Un idea probabilmente più politicizzata muove dalla convinzione che il primato della proprietà nasce dal fatto che questa costituisce il punto d’avvio tanto della concezione liberale che dell’analisi marxista.
A personale avviso, la distinzione tra il tema della proprietà e quello dell’impresa avviene secondo criteri che finiscono con l’individuare la disciplina proprietaria come la sede di alcune generalissime affermazioni di principio, mentre le norme sull’impresa diventano quelle che, affrontano le due questioni del piano e della proprietà collettiva.
Piace affermare come la funzione sociale della proprietà, e direi anche dell’impresa, deve ricondursi al collegamento tra proprietà e persona. È compito del legislatore attuare le direttive costituzionali e, chiarire normativamente, come certi beni assolvano anche ad una funzione sociale. Il considerare un impresa asetticamente, non rende merito alla valenza che questa può avere sulla collettività. E’ noto come il dissesto di un complesso produttivo, determina mutamenti in peius sull’economia locale.
Diremo quindi come l’impresa non può ascriversi semplicemente nell’ambito del diritto di proprietà, ma a questo si ricondurrà qualora si abbia riguardo della funzione sociale che questa assolve sia nell’ordinamento giuridico sia nella realtà sensibile.
Ora, in ragione dell’innegabile esistenza di una funzione sociale dell’impresa, in quanto centro d’interessi eterogenei, il discorso sul concetto d’impresa deve articolarsi sul ruolo che il complesso produttivo latu senso assume.
Nel corso degli ultimi 30 anni si è assistito all’affermarsi a livello internazionale di una nuova concezione del ruolo dell’impresa nella società, nel senso di un più ampio riconoscimento delle sue responsabilità verso la società in cui opera. In tale concezione l’idea chiave è quella di stakeholders, cioè individui o gruppi che hanno un interesse legittimo nei confronti dell’impresa e il cui contributo è essenziale al suo successo . Per la teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholders la dottrina tradizionale secondo cui i manager sarebbero moralmente responsabili esclusivamente verso i proprietari/azionisti deve essere, infatti, sostituita dalla visione secondo cui essi hanno un «rapporto fiduciario» verso un’ampia serie di stakeholders dell’impresa (fornitori, clienti, dipendenti, azionisti, comunità locale). Soggiacente al riconoscimento di una “responsabilità sociale” delle imprese è la consapevolezza di un cambiamento avvenuto nei termini del contratto tra società e impresa, cambiamento che riflette un mutamento nelle aspettative della società nei confronti delle imprese.
Il vecchio contratto tra società e impresa era basato sull’idea che lo sviluppo economico è la fonte del progresso sia sociale sia economico, e che motore di tale sviluppo è la ricerca del profitto da parte di imprese private in competizione tra loro. Il compito fondamentale dell’impresa quindi era produrre beni e servizi in vista del profitto per gli azionisti/proprietari e, nel fare ciò, l’impresa dava il suo massimo contributo alla società. Il nuovo contratto tra società e impresa, poiché è basato sull’idea cha la ricerca dello sviluppo economico non necessariamente porta automaticamente al progresso sociale ma, anzi, può condurre all’inquinamento ambientale, a posti di lavoro pericolosi per la salute dei dipendenti, ecc., che impongono costi sulla società, richiede invece la riduzione di tali costi facendo accettare all’impresa l’idea che essa ha l’obbligo di operare in vista del miglioramento sia sociale sia economico. Questa idea fu ben espressa nel 1971 dal Committee for Economic Development: «Oggi è chiaro che i termini del contratto tra società e imprese sono, di fatto, mutati in modo sostanziale e importante. All’impresa è richiesto di assumere responsabilità verso la società più ampie che in passato e di essere al servizio di una più ampia gamma di valori umani. All’impresa in realtà, è richiesto di contribuire più alla qualità della vita della società americana che fornire semplicemente beni e servizi»3.
Pertanto, sebbene la giustificazione ultima dell’esistenza dell’impresa sia la sua capacità di creare ricchezza, la legittimità dell’impresa come istituzione sociale dipende dalla sua capacità di soddisfare le aspettative di numerosi stakeholders.
L’adozione della stakeholder view dell’impresa – va precisato – ha alcune importanti implicazioni di carattere etico/normativo. In primo luogo la performance aziendale deve essere valutata da molteplici punti di vista: gli interessi degli “azionisti” sono, naturalmente, tra questi, ma essi non sono sempre i più importanti e non sono mai esclusivi rispetto agli interessi di altri stakeholders. In secondo luogo, essendo la teoria degli stakeholders “fondamentalmente normativa”4, i manager hanno l’obbligo morale di prendere in considerazione gli interessi degli stakeholders che possono essere influenzati, favorevolmente o sfavorevolmente, dalle loro decisioni. Come hanno chiarito a questo riguardo Donaldson e Preston, il “nucleo normativo” del modello degli stakeholders, sta nell’accettazione di due tesi fondamentali:
1) gli stakeholders identificano se stessi a causa del loro interesse nell’impresa (a prescindere dall’esistenza o meno di un interesse funzionale dell’impresa per essi);
2) gli interessi di tutti gli stakeholders hanno valore intrinseco e meritano considerazione (sebbene non tutti i desideri di ogni gruppo di stakeholders possa o debba essere soddisfatto) nel processo decisionale manageriale, indipendentemente dalla capacità di un gruppo di stakeholders di promuovere gli interessi di un altro gruppo, per es. gli azionisti/proprietari5
L’accettazione di queste due tesi definisce una “moralità dell’organizzazione” secondo cui interessi legittimi degli stakeholders richiedono riconoscimento e attenzione da parte dei manager come materia di diritti morali. Ne consegue quindi un ampliamento della gamma dei criteri per valutare la performance aziendale oltre la redditività e la crescita di breve periodo per includere gli interessi di lungo periodo di molteplici stakeholders la cui collaborazione è essenziale per il successo dell’impresa
Un elemento decisivo nel piano è poi l’attività di formazione in etica per i dipendenti dell’azienda. Funzione importante per il successo di attività di formazione in etica è svolta dagli incontri seminariali: attraverso tali incontri, in cui i dipendenti possono dialogare l’uno con l’altro sulle questioni etiche che sorgono nelle attività quotidiane in azienda, si cerca di: contribuire ad aumentare la consapevolezza etica dei dipendenti; aiutare i dipendenti a riconoscere le questioni etiche collegate direttamente all’attività aziendale; fornire a essi strumenti e criteri per l’analisi razionale etica e per la presa di decisioni etiche entro l'azienda; fornire loro assistenza su come tradurre il ragionamento etico in concreta azione etica nel contesto aziendale; esaminare le strutture, strategie, politiche e scopi che modellano l’ambiente etico e guidano le attività etiche aziendali; sottolineare l'importanza della leadership etica a tutti i livelli dell'organizzazione. Una attività di formazione in etica per essere coronata da successo dovrebbe inoltre essere rivolta a tutti i dipendenti e non solo al management; e vedere tra i partecipanti in una stessa classe rappresentanti di differenti livelli aziendali, al fine di favorire una migliore comunicazione e comprensione tra tutti i membri dell’organizzazione relativamente ai problemi e agli impegni etici della azienda. Attraverso la realizzazione di iniziative di formazione in etica così impostate dovrebbe essere possibile raggiungere l’obiettivo della costruzione di una cultura etica d’impresa più forte e integrata.
In conclusione diremo che il nuovo concetto d’impresa muove dalla funzione sociale del complesso produttivo, si articola in ordine a canoni di responsabilità d’impresa verso soggetti titolari di interessi legittimi e tra di loro eterogenei, e necessita di interventi legislativi che muovano verso l’interesse collettivo, rispondendo a esigenze già palesi nei lavori costituzionali.




NOTE

1 si aggiunga come nell’attuale assetto imprenditoriale, agli indici anzi riportati, si è aggiunta la tecnologia.
2 Nel nostro ordinamento giuridico, essenzialmente retto da principi di eguaglianza sostanziale e formale, deve tenersi in considerazione come nella responsabilità, nella trascrizione, nell’usucapione, nel rapporto di lavoro, nel contratto, il principio della funzione sociale opera in modi diversi, specificando di volta in volta il suo significato, e ciò costituisce condizione essenziale e necessaria della sua operatività.
3 T. M. Jones, «Ethical Decision Making by Individuals in Organizations: An Issue-Contingent Model», Academy of Management Review, 16, 1991, pp. 366-395
4 L.K. Trevino, K. Nelson, Managing Business Ethics: Straigth Talk About How to Do It Right, cit., in particolare cap. 9
5 E. D’Orazio, «Etica manageriale, istituzioni e organizzazioni. Introduzione al processo decisionale etico nelle imprese», Filosofia e Questioni Pubbliche, 1/2002, pp. 63-109