Ogni azienda, per lo svolgimento della sua attività, necessita di risorse finanziarie (o capitali). Si possono individuare due canali attraverso i quali l’impresa(1) acquisisce mezzi finanziari: il capitale proprio ed il capitale di terzi.
Il capitale proprio è costituito dai conferimenti effettuati dai proprietari dell’impresa alla sua costituzione e successivamente (capitale sociale) e dagli utili prodotti dalla gestione e non distribuiti ai proprietari (riserve di utili o utili non distribuiti, che danno luogo ad autofinanziamento). Se l’impresa è costituita nella forma giuridica di società, i proprietari sono chiamati soci. In questo caso, il capitale sociale è suddiviso in quote (nelle società di persone e nelle s.r.l.) od azioni (nelle s.p.a. e nelle s.a.p.a., forme giuridiche adottate per le imprese di maggiori dimensioni). Quando il capitale è rappresentato da azioni, il socio è anche detto azionista. La titolarità di quote o azioni attribuisce diritti economico-patrimoniali ed amministrativi. I primi sono il diritto a percepire una parte degli utili eventualmente distribuiti dalla società (detta dividendo nelle s.p.a e s.a.p.a.), proporzionale alla quota di proprietà; il diritto al rimborso della quota in caso di recesso dalla società e in caso di liquidazione della stessa. Il principale diritto amministrativo è il voto nelle assemblee dei soci/azionisti. L’azionista, a differenza dei terzi finanziatori, non ha diritto alla restituzione del capitale conferito secondo scadenze predeterminate contrattualmente.

Il capitale sociale si forma, come accennato, per effetto dei conferimenti(2) iniziali dei soci e dei successivi (eventuali) aumenti di capitale. Questi possono essere gratuiti o a pagamento. I primi sono effettuati come giro di poste contabili (una parte delle riserve di utili preesistenti viene “girata” a capitale), senza chiedere ai soci ulteriori apporti (per questo sono gratuiti); gli aumenti a pagamento avvengono invece tramite nuovi conferimenti dei soci. Una società può anche effettuare un aumento di capitale misto, cioè in parte gratuito ed in parte a pagamento.

Gli apporti di capitale effettuati dai proprietari non sono quasi mai sufficienti a finanziare in toto l’attività aziendale. Per tal ragione, le imprese ricorrono anche a finanziamenti di terzi, che diventano creditori dell’impresa (e non proprietari). Come tali, essi non acquisiscono i relativi diritti economici ed amministrativi, ma hanno diritto al rimborso dei prestiti erogati secondo un piano predeterminato contrattualmente e con prelazione (priorità) rispetto ai soci. I finanziamenti di terzi sono rappresentati in primo luogo dai prestiti bancari. Le imprese di grandi dimensioni ricorrono anche a prestiti obbligazionari, di cui si dirà in seguito.

Le banche erogano finanziamenti di varia natura. I principali sono i mutui, gli anticipi salvo buon fine (s.b.f.) e le aperture di credito in c/c. I mutui sono prestiti di denaro che la banca eroga in un’unica soluzione e che l’impresa è tenuta a restituire pagando delle rate periodiche secondo un piano d’ammortamento prestabilito. Ciascuna rata è formata da una quota capitale, che serve a ridurre l’ammontare del debito in essere, e da una quota interessi, che costituisce il compenso alla banca per la messa a disposizione delle somme. L’anticipo s.b.f. trova la propria ragion d’essere nel fatto che un’azienda raramente incassa i corrispettivi delle vendite in modo immediato (per pronta cassa): i clienti pagano normalmente dopo 60-90 giorni, periodo che si allunga ulteriormente qualora essi abbiano difficoltà finanziarie. Con l’anticipo s.b.f., l’azienda presenta alla propria banca un documento che attesta le vendite effettuate (ad es. le fatture), ottenendo in anticipo il corrispettivo (tecnicamente è un debito dell’impresa verso la banca, sul quale maturano interessi). Se alla scadenza il cliente non paga (è insolvente), la banca revoca l’anticipo erogato in precedenza. In caso contrario, il pagamento del cliente estingue il debito dell’impresa. L’apertura di credito è un contratto tramite cui la banca mette a disposizione dell’impresa una data somma di denaro (accordato). L’impresa ha poi la possibilità di utilizzarla per intero o solo in parte, pagando interessi su quanto utilizzato.

I prestiti obbligazionari possono essere assimilati ai mutui. In questo caso, però, l’impresa non chiede un prestito ad una banca, ma si rivolge al pubblico. Ciascun investitore (persona fisica, ente, altra società) sottoscrive una quota del prestito (in pratica, acquista dei titoli obbligazionari) ed in tal modo finanzia l’impresa. Essa si impegna successivamente a pagare ai titolari interessi periodici (detti cedole) e a rimborsare alla scadenza del prestito il capitale da loro investito: a differenza dei mutui, il rimborso non è graduale, ma avviene in un’unica soluzione (o bullet).

Ѐ a questo punto opportuno fare alcune considerazioni sui vantaggi e gli svantaggi delle due tipologie di fonti di finanziamento dal punto di vista dell’impresa. In entrambi i casi essa deve corrispondere un rendimento al finanziatore. I soci, in quanto remunerati in subordine ai creditori ed in via eventuale, richiedono una remunerazione maggiore dei terzi finanziatori, il che comporta per l’impresa un maggior costo del capitale proprio. I finanziamenti di terzi, inoltre, hanno un costo (gli interessi) che l’impresa può dedurre fiscalmente(3), cioè lo può portare a riduzione del reddito sul quale vengono pagate le imposte, generando quindi un risparmio fiscale. Ricorrere al capitale di terzi consente poi all’impresa di reperire risorse senza l’ingresso di nuovi soci, il che permette di mantenere stabili gli assetti proprietari e quindi il controllo dell’impresa.

Per salvaguardare la solidità dell’impresa, l’indebitamento non deve però essere eccessivo. Debiti ingenti comportano infatti un elevato peso degli interessi passivi, che può tradursi in primo luogo nella perdita (parziale o anche totale) del beneficio fiscale. Ancor più importante è il rischio che l’impresa non sia nelle condizioni di pagare debiti ed interessi alle scadenze previste, risultando così insolvente. A questo punto le banche, temendo di perdere i mezzi finanziari prestati, reagiscono chiedendo all’impresa garanzie di corretto adempimento dell’obbligazione (ad. es. ipoteche sugli immobili), di ridurre l’utilizzo degli affidamenti in c/c, o se saranno disposte a finanziarla, chiederanno un tasso più alto a causa del maggior rischio. I fornitori, temendo di non incassare, saranno più restii ad effettuare le consegne (potrebbero ad es. richiedere in cambio il pagamento immediato). Se le difficoltà persistono, l’impresa potrebbe trovarsi in difficoltà a pagare anche i propri dipendenti, e così via. Un eccessivo indebitamento, in pratica, aumenta il rischio d’insolvenza dell’impresa, e ciò può portare anche al suo fallimento, con i costi che ne conseguono.

In conclusione, non è buona pratica operare con poco capitale (impresa sottocapitalizzata). Al di là di questa considerazione generale, non si può stabilire a priori la struttura finanziaria ottimale di un’impresa. Essa dipende da numerosi fattori, quali lo stadio di sviluppo dell’impresa, le caratteristiche del settore in cui essa opera ed anche da variabili macroeconomiche, come i tassi d’interesse di mercato.


NOTE:
(1) I termini “impresa” e “azienda” vengono spesso usati come sinonimi. Per comodità, questa convenzione verrà adottata anche nel presente articolo. Si fa però presente che per impresa s’intende l’esercizio di un’attività economica, mentre l’azienda è l’insieme dei beni (mobili ed immobili) impiegati per svolgere tale attività.
(2) Si precisa che i conferimenti possono consistere in denaro, beni mobili o immobili, talvolta in prestazioni lavorative (opera) dei soci. I soci possono essere sia persone fisiche che altre società (questo caso è tipico dei gruppi societari).
(3) La deducibilità è ammessa fino a concorrenza del 30% del reddito operativo lordo: se l’impresa ha margini ridotti (o negativi), gli interessi sono deducibili solo in parte (o per nulla).