La teoria del trade-off può considerarsi l’evoluzione più diretta della teoria classica dell’irrilevanza della struttura finanziaria di Modigliani e Miller.

Assegnando al debito i benefici e i costi che gli sono correlati, si determina un trade-off di vantaggi e svantaggi che possono determinare, una maggiore (minore) convenienza ad incrementare (diminuire) il livello di indebitamento ovvero del capitale netto dell’impresa.

Se la politica finanziaria comporta un trade-off costi-benefici, si può sostenere che i benefici marginali saranno annullati dai costi marginali solo in casi eccezionali; nella maggior parte dei casi i benefici marginali saranno superiori ai costi marginali (nel qual caso l’indebitamento aumenterà il valore dell’impresa) oppure inferiori (ed allora sarà il capitale netto la fonte più appropriata al finanziamento dell’impresa); va da sé che una siffatta impostazione teorizzi l’esistenza di una combinazione ottimale delle fonti della struttura finanziaria, certamente variabili da impresa a impresa in relazione alle differenti caratteristiche assunte dal rischio connesso alle attività svolte, tramite le quali è possibile massimizzare il valore dell’impresa.
La combinazione dei c.d. “scudi fiscali” (incrementi di ricchezza dell’impresa dovuti alla strategia adottata dalla stessa in presenza di imposizione fiscale) con componenti di valore di segno opposto (negativo-costi di fallimento) è, per l’apputo all’origine della c.d. trade-off theory e cioè della teoria per cui l’impresa, bilanciando incrementi e decrementi (valori attuali) di valore sarebbe capace di trovare un assetto di indebitamento ottimale.

Quando si manifestano le prime avvisaglie di dissesto finanziario (non necessariamente coincidono con il fallimento dell’impresa) si generano dei fatti che suscitano (o dovrebbero suscitare) subito l’attenzione dei responsabili:
· Possono verificarsi delle controversie tra i soggetti interessati alla liquidazione delle attività;
· I costi legali e giudiziari ed i costi di amministrazione crescono a dismisura e possono erodere la ricchezza degli azionisti;
· Deve aggiungersi la fondata prospettiva della perdita del lavoro da parte dei manager e degli impiegati dell’impresa. Un tale quadro non può lasciare indifferenti gli azionisti. Quando i manager non hanno fiducia nella permanenza dell’istituto aziendale vengono indotti ad assumere decisioni che, se pure permettono all’impresa di sopravvivere nel breve periodo, ne accrescono il rischio di dissesto nel lungo andare (differimento delle attività di manutenzione, rinnovo di capitali fissi, cessioni di attività a prezzi inferiori al valore di mercato, e ciò al fine di sopperire alle carenze di liquidità, ecc.);
· Sia i clienti che i fornitori sono consci delle conseguenze di un futuro dissesto dell’impresa.

Seguendo Altman possiamo affermare una relazione consistente tra indebitamento e valore di mercato dell’impresa che non emerge finchè i presumibili costi del dissesto ed i costi di agenzia sono limitati. Quando questi costi si incrementano, al valore attuale del risparmio fiscale si deve associare quello negativo misurabile attraverso la stima di detti costi.