Osservatori italiani e stranieri concordano nel rilevare che i paesi dell’area dell’euro, e in particolare l’Italia, debbano imboccare di nuovo il cammino della crescita. Anche Mario Draghi, l’attuale Governatore della Banca d’Italia, nelle sue considerazioni finali, ha sottolineato l’evidente situazione europea che nel suo complesso presenta un andamento dell’economia a tassi di crescita modesti, quasi recessivi e che l’imperativo per l’Italia è oggi di tornare a produrre più ricchezza e occupazione. Questa affermazione non può non essere condivisa, ma occorre vedere come la crescita può essere conseguita.
La via da seguire non è certo quella della finanza, specie quella speculativa. Occorre, invece, seguire la via dell’offerta tramite l’abbattimento della pressione fiscale e dell’aumento della produttività del lavoro.
Se si considera l’ultimo quindicennio, l’economia italiana, quella tedesca e quella francese hanno conosciuto periodi di alti e bassi incrementi del Pil. Ma da quando c’è la moneta unica hanno sviluppato tassi di crescita notevolmente inferiori agli Usa e anche alla Gran Bretagna.

La politica economica prevalente è stata di tipo deflazionistico. L’attenzione è stata concentrata sul pareggio del bilancio pubblico, privando però l’economia dell’apporto degli investimenti pubblici, grande volano in questi tre paesi. È evidente che occorre cambiare strada ed escogitare appropriate politiche, che agiscano sull’offerta di beni e servizi a prezzi competitivi all’interno e nei confronti del resto del mondo.



Sulla base dei dati ISTAT del primo trimestre 2006 si prevede anche per quest’anno un andamento di basso profilo con una crescita intorno all’1,4 per cento sia per la Germania che per la Francia, mentre l’Italia potrebbe crescere dell’1,5 per cento. Le previsioni per l’anno prossimo danno purtroppo un rallentamento.

Per non stroncare sul nascere questa timida ripresa è opinione diffusa negli ambienti internazionali (OCSE e FMI) che la Banca Centrale Europea debba evitare l’errore di aumentare ulteriormente il tasso d’interesse. Ma l’avvertimento è stato ignorato e nel giugno scorso lo ha di nuovo aumentato di 0,25 punti portandolo al 2,75 per cento. Gli aumenti oltre ad apprezzare l’euro sul dollaro, penalizzano la ripresa, perché ostacolano le esportazioni, il commercio intracomunitario, gli investimenti e l’occupazione. In breve l’economia ristagna. Infine, ogni rialzo del tasso di interesse aumenta l’onere per il servizio del debito pubblico.

Oltre all’alto prezzo dell’euro, i paesi dell’Unione monetaria soffrono di una eccessiva pressione fiscale, che toglie respiro all’economia. Il livello ottimo di pressione fiscale sembra essere quello degli Stati Uniti che è del 25 per cento in media, contro valori quasi doppi in Europa. Francia e Italia hanno la massima pressione fiscale e l’Italia appare più colpita perché ha un reddito minore rispetto alla Francia.



Considerando che l’attuale imposizione fiscale italiana si aggira intorno al 42-43 per cento, la soglia del 25 per cento è sicuramente un obiettivo molto ambizioso e non raggiungibile in breve tempo.
Il meccanismo è piuttosto complesso e delicato. Una diminuzione dell’imposizione fiscale ridurrebbe in un primo tempo le entrate fiscali. Per evitare che il deficit raggiunga livelli eccessivi occorre compensare quindi il minor gettito con un taglio della spesa pubblica nella sola componente delle spese correnti dello Stato e della finanza locale e aumentare allo stesso tempo le spese in conto capitale e, quindi, gli investimenti pubblici.

Gli investimenti che occorre considerare sono quelli sia in infrastrutture, lavori pubblici e servizi, sia ad alto contenuto di capitale tecnico che permetta un innalzamento della produttività del lavoro.
La produttività del lavoro nei maggiori paesi dell’area dell’euro, la Germania, la Francia e l’Italia, ha avuto ed ha tutt’ora un andamento molto lento, specie se confrontato con quello degli Stati Uniti, come appare evidente dal grafico della produttività globale. L’eurozona non sembra più competitiva e dovrà adeguarsi agli standard statunitensi di ampie dosi di capitale tecnico, con finanziamento della ricerca e dell’innovazione.



Le minori tasse e l’aumento degli investimenti sarebbero di forte incentivo in questo momento, e permetterebbero l’ingresso dell’economia dell’eurozona e quindi dell’Italia, nel circolo virtuoso della crescita mondiale. La riduzione della pressione fiscale, infatti, fa aumentare i redditi disponibili e quindi il consumo e l’occupazione, le spese in conto capitale fanno aumentare la produttività del lavoro. L’aumento della produttività, a sua volta, rende competitive le imprese e quindi anche le esportazioni e, in definitiva, porta all’aumento del reddito nazionale. Di conseguenza il gettito delle imposte aumenta nuovamente in termini assoluti. È una scelta coraggiosa, che fino ad ora l’Europa non ha saputo o voluto fare, pagando per questo l’alto prezzo di una minore competitività nell’ambito internazionale.

Pubblicato su Finanza Italiana luglio-agosto 2006